Václav #68
25 marzo - 15 aprile
Le elezioni parlamentari ungheresi sono state senza dubbio l'evento principale delle settimane appena trascorse in Europa centrale. Ancora una volta a trionfare è stato Viktor Orbán, con il partito da lui fondato, Fidesz, che si è aggiudicato per la quarta volta consecutiva più dei due terzi dei seggi del Parlamento di Budapest. Al voto ungherese abbiamo dedicato un ricco longform e un podcast che potete trovare qui.
Le conclusioni sulla vittoria di Orbán le affidiamo all'editoriale sul Washington Post di Fareed Zakaria, colui che ha coniato ormai più di venti anni fa il termine democrazia illibeale, ripreso da Orbán nell’estate del 2014, quando appena riconfermato per il suo secondo mandato, volle porre le basi ideologiche del suo ciclo politico che iniziava a prefigurarsi di lunga durata. Zakaria descrive come Orbán in questi anni abbia manipolato la forma democratica liberale in modo da ricavarne vantaggi strutturali: ha concesso la cittadinanza a quasi due milioni e mezzo di ungheresi oltre confine, ha mandato in frantumi la stampa indipendente, il governo ha sostenuto attivamente la campagna elettorale di Fidesz. Ha, inoltre, accantonato in parte il dogma del libero mercato, sempre caro alla destra, e usato il dirigismo per distribuire ingenti somme ai gruppi che sostengono il suo partito. Ma la vittoria di Orbán è dovuta all'altra gamba su cui si regge il suo potere: il populismo di destra, ancora molto seducente nel paese. Un fascino che viene da lontano, che deriva dal solido nazionalismo culturale ungherese esaltato in questi anni dalle battaglie contro gli immigrati, il multiculturalismo, le diversità. Idee e metodi che fanno breccia soprattutto tra gli strati più anziani, rurali e meno istruiti, ma che raccolgono un'ampia maggioranza della popolazione.
La guerra scoppiata ai confini orientali dell’Europa pone la regione davanti a una sfida complicata: il rapporto con la Russia mette in crisi nelle fondamenta l’alleanza di Visegrád, che offre risposte disarticolate alla domanda di appoggio militare all’Ucraina e al tentativo di offrire una posizione comune europea, di cui si dovrà presto fare portavoce la Repubblica Ceca, pronta a rilevare la presidenza di turno dell’Ue. Nei due focus che precedono le sezioni nazionali ci occupiamo delle due più immediate ripercussioni che la crisi ucraina ha portato sull’Europa centrale: l’arrivo di oltre tre milioni di profughi in fuga dalla guerra e la pressione sul settore energetico, dove la regione è fortemente dipendente dalla Russia.
Buona lettura.
Il miracolo dell’accoglienza
Dall’inizio dell’aggressione russa sono stati più di due milioni e mezzo gli ucraini che hanno trovato accoglienza in Polonia. Il Guardian lo ha chiamato il “miracolo polacco dell’accoglienza”. Tra i profughi alcuni hanno proseguito il viaggio verso altri paesi, oppure hanno deciso di ritornare, ma molti hanno deciso di restare. La Polonia era già stata meta di una massiccia immigrazione a partire dal 2014. Dall’inizio della guerra del Donbas erano arrivate in otto anni più di un milione di persone. Il Guardian, però, si interroga su quanto possa durare questo sforzo umanitario, che con il passare del tempo metterà sotto stress il settore dell’educazione, quello dell’accoglienza e quello abitativo.
A partire da fine febbraio, la Repubblica Ceca ha accolto circa 350mila profughi provenienti dall'Ucraina, nonostante i due Paesi non condividano alcun confine. Il 30 marzo, quando i visti concessi da Praga agli ucraini in fuga dalla guerra erano 233mila, il governo ceco stimava che cerca i due terzi di queste persone potrebbero restare nel Paese in modo definitivo. E quindi saranno necessari investimenti per accoglierli e integrarli in maniera adeguata sul lungo periodo. Lo sottolinea Euractiv. Un interesse particolare andrà dedicato al settore scolastico, viste le decine di migliaia di bambini ucraini che sono tornati dietro ai banchi nella Repubblica Ceca. Radio Praga racconta l'esperienza di una classe straordinaria creata nel centro di Praga e composta unicamente da bambini ucraini appena arrivati nel Paese, intervistando alcuni insegnanti e alunni. Classi di questo tipo sono state create anche in altre città ceche, come Brno, e rappresentano una prima risposta in attesa di capire come integrare nel tessuto scolastico nazionale i bimbi più piccoli fuggiti dalla guerra.
Con lo scoppio del conflitto quasi la metà dei 200 mila esponenti della minoranza ungherese della Transcarpazia, regione dell'Ucraina occidentale, hanno lasciato le loro case per attraversare il confine con l'Ungheria. Dopo anni di attriti con il governo di Kiev a causa dell’irrisolta legge sull’uso delle lingue nazionali ora temono che anche questo lembo occidentale di Ucraina diventi obiettivo militare, se verrà concesso il transito di armi attraverso la regione. La loro posizione è espressa Karolina Darcsi, sociologa della scuola di formazione superiore Ferenc Rakoczi II di Berehove su Die Presse.
Il dilemma energetico
In Ungheria rielezione di Orbán non può che aver ulteriormente rafforzato il secco no ungherese al boicottaggio degli idrocarburi, in nome della sicurezza energetica nazionale. Posizione ribadita al Financial Times dal governo ungherese per bocca di Zoltán Kovács, che evidenzia come finora non sia stata presentata nessuna proposta concreta di sanzioni sull'energia. L'Ungheria non è sola su questa posizione, anche Germania e Austria si oppongono al taglio delle forniture russe di petrolio e gas. Aspettando i risultati del secondo turno in Francia, il Wall Street Journal avverte che potrebbero volerci settimane per una prima bozza, ma, secondo fonti di Bruxelles si sta, comunque, formando una piattaforma comune sul petrolio e gli orrori di Bucha potrebbero spingere verso un accordo.
Nonostante la grande solidarietà espressa, a parole e nei fatti, all’Ucraina per l’invasione subita da parte della Russia, la Slovacchia è pronta ad accettare le condizioni russe e quindi a pagare in rubli le forniture di gas necessarie. Quello che sembra un gesto incoerente è in realtà una necessità ineluttabile, dal momento che Bratislava importa dalla Russia l’85% del fabbisogno interno di gas. Il ministro dell’Economia Sulík ha dichiarato che, al momento, questa è l’unica decisione possibile e che i piani per diversificare i fornitori sono sul tavolo ma saranno realizzabili solo nello spazio di molti anni. Se ne parla su Euractiv.
Diversa invece la posizione della Polonia, dove Il governo è stato da subito uno dei più intransigenti sulla linea della sanzioni, spingendo per un ban totale dell’import di gas, petrolio e carbone provenienti dalla Russia. Prima ancora che si giungesse a un accordo a livello europeo Varsavia ha deciso di tagliare autonomamente le importazioni di quest’ultimo. Ne scrive Politico. Nel mirino ora c’è il petrolio. Come riporta l’Ansa, si punta a sganciarsi da Mosca entro fine anno.
Ungheria
Il futuro dei rapporti con l'Ue
Non si faranno attendere i contraccolpi in sede europea della vittoria a valanga di Orbán. Secondo quanto scrive su Euractive Peter Hefele, del Martens centre for european studies di Bruxelles, il fossato tra governo ungherese e commissione Ue diverrà sempre più profondo con Ursula von der Leyen schierata sulla linea dura, contro la concessione dei Recovery fund, che l'Ungheria è tornata a chiedere. Orbán inoltre si proporrà sempre più come il portabandiera dei sovranisti. Secondo il Wall street journal ormai il denaro è l'unica arma di pressione efficace contro il Primo ministro ungherese e la corruzione è così evidente che l'applicazione del sistema sanzionatorio è giustificata ed è dunque tempo che la Commissione agisca. Gli ungheresi scelgono chi vogliono, ma devono sapere che la loro decisione non passa inosservata e non vi è alcuna giustificazione razionale perché l'Ue continui a guardare all'attacco ai suoi valori senza agire.
Il rapporto speciale con la Russia
Sempre secondo il Wall Street Journal le elezioni ungheresi sono state un referendum sulla promessa di Orbán di limitare il sostegno all'Ucraina, ed Orbán continuerà a porsi tra Oriente e Occidente presentandosi come un negoziatore alla Trump e miglior difensore degli interessi nazionali, seppure in molti lo considerino come quinta colonna russa nel cuore dell'Europa.
Nonostante il suo rapporto particolare con Mosca, Orbán non può contare su una vera amicizia con la Russia, sostiene il Financial Times. Una fonte interna al governo ungherese confida infatti la grande sorpresa che ha destato l'aggressione russa, di cui non si era fatto cenno durante l'incontro tra Putin e Orbán di inizio febbraio. Intanto il premier ungherese ha condannato con giorni di ritardo l'eccidio di Bucha, garantendo, al contempo, il suo supporto per una inchiesta internazionale rivolta a identificare gli autori del massacro. Ne dà notizia Hungary Today.
La Russia ha spiato il ministero degli esteri ungherese
Secondo quanto rivela il giornale di inchiesta ungherese Direkt36, l'Fsb, il Servizio federale per la sicurezza della Russia, è stato in grado, a metà 2021, di penetrare all'interno del sistema informatico del Ministero degli esteri ungherese e avere completo accesso all'intranet e alla corrispondenza elettronica. La falla informatica è rimasta aperta sino ai recenti vertici straordinari Ue e Nato sulla crisi ucraina. Il ministro degli Esteri, Péter Szijjártó, che ha ricevuto il 3 dicembre scorso l'Ordine dell'Amicizia, la più alta onorificenza assegnata a uno straniero da parte della Federazione russa, non ha condannato pubblicamente l'accaduto.
L'arte ai tempi di Orbán
Il giornale conservatore tedesco Die Welt ha chiesto a cinque esponenti del mondo della cultura ungherese cosa si attendono dopo la riconferma di Orbán. La loro risposta istintiva è stata: «Ora siamo noi ad essere diventati i comunisti». Come spiega il direttore della Festival Orchestra di Budapest, Iván Fischer, reduce da una trionfale tournée inglese, gli ungheresi vivono in due bolle e considerano l'altro campo un nemico. Secondo Fischer, diversamente da altri settori, nell'ambito culturale si può anche scegliere di non lavorare in Ungheria. Chi sceglie di restare, come la scrittrice Andrea Tompa, sa che, anche se non si opera direttamente in enti dello Stato, bisogna prestare attenzione alle relazioni politiche. «Questo clima potrebbe peggiorare, ma l'arte sopravvive a tutto» afferma. Sempre su Die Welt Thomas Rabe, direttore del gruppo Bertelsmann, di cui fa parte anche la rete televisiva Rtl, rassicura sulla volontà di restare sul mercato ungherese, dove è l'unico canale commerciale politicamente indipendente. «Non ci faremo spaventare» afferma.
Il magico mondo di Bosch
Ha aperto al pubblico il 9 aprile al Museo di belle arti di Budapest, la mostra dal titolo “Tra Paradiso e Inferno” dedicata al genio di Hieronymus Bosch. Una retrospettiva per certi versi straordinaria, la prima in Europa da decenni a questa parte dove è possibile ammirare la metà delle sole venti opere di grandi dimensioni note dell'artista fiammingo. Ad esse sono affiancate poi quasi cento tra tele dei suoi discepoli, miniature, disegni e sculture che funsero da base per le visionarie invenzioni di uno dei più enigmatici artisti del Rinascimento. Via Hungary Today.
Polonia
La crisi dell’asse polacco-ungherese
L’invasione russa dell’Ucraina incrina l’asse polacco - ungherese. Varsavia reputa troppo morbida la posizione di Budapest nei confronti della Russia e in queste settimane ha manifestato più volte il proprio disappunto. Il primo a esprimere insofferenza era stato il presidente polacco Andrzej Duda, che aveva dichiarato di non capire l’approccio di Orbán al conflitto e che questo tipo di politica sarebbe stata molto costosa per l’Ungheria. La crisi si era poi intensificata con la rinuncia del ministro della Difesa Błaszczak e dell’omologa ceca Černochová a partecipare a un vertice Visegrád a Budapest. Le due defezioni avevano causato l’annullamento dell’evento. Dopo i fatti di Bucha è arrivato anche lo stigma di Jarosław Kaczyński «Quando il primo ministro Orbán dice che non riesce a vedere chiaramente quello che è successo a Bucha qualcuno dovrebbe consigliargli di andare dall’oculista». Da Euronews. Uno stato dell’arte dei rapporti dai due paesi viene tracciato da Woicjech Przybylski su Politico.
Biden, tra parole di fuoco e bombe
«Putin è un macellaio» e «Per l’amor di Dio, quest’uomo (Putin) non può rimanere al potere» sono due delle esternazioni più dure che hanno caratterizzato la visita del presidente americano Joe Biden in Polonia. Una visita nata per mostrare sostegno a un Paese impegnato in prima linea nel conflitto dal punto di vista del supporto umanitario e militare. I toni molto accesi hanno però diviso l’opinione pubblica, al punto che la Casa Bianca ha dovuto smentire con un comunicato che Biden stesse invocando un regime change. La cronaca del suo viaggio dal punto di vista della Cbs.
A tenere alta la tensione ci ha pensato anche la Russia, che un paio d’ore prima del discorso del presidente americano, ha bombardato un complesso petrolifero a Leopoli, città ucraina e 70 km dal confine polacco. Un attacco non casuale in una città fino a quel punto risparmiata dalle bombe, che ha suscitato timore per il rischio dell’espansione del conflitto proprio in Polonia. Se ne è occupata Al Jazeera.
Il fantasma di Smolensk Il 12 aprile 2010 l’aereo presidenziale polacco, che stava trasportando il capo di Stato Lech Kaczyński, la moglie Maria e altre 94 persone, in gran parte parlamentari e funzionari, cadde nei pressi di Smolensk, in Russia. Non ci furono sopravvissuti. La delegazione si stava recando alle commemorazioni per i 70 anni dell’eccidio di Katyń, nel quale i sovietici eliminarono 22mila esponenti dell’intelligentia polacca.
Le cause del disastro aereo furono attribuite a un errore del pilota avvenuto in condizioni meteo avverse, ma la tragedia segnò a lungo la vita politica del Paese. Jarosław Kaczyński, gemello di Lech e leader di Diritto e Giustizia (PiS) non ha mai creduto all’incidente e ha sempre sostenuto che ci fosse dietro la regia del Cremlino, con la complicità dell’allora primo ministro polacco Donald Tusk, oggi capo dell’opposizione.
In occasione del 12esimo anniversario della tragedia, è stato reso pubblico il lavoro di una commissione d’inchiesta durata sette anni, secondo cui l’aereo sarebbe caduto a seguito di due esplosioni in volo, probabilmente provocate da armi termobariche.
Jarosław Kaczyński è tornato dunque a puntare il dito contro Mosca, e ha annunciato l’intenzione di denunciare la Russia presso la Corte europea dei diritti umani. Sul fronte interno si registra scetticismo nell’opposizione in merito alla consistenza del rapporto presentato dalla commissione. Non ci sarebbe evidenze a supporto della tesi presentata. Notes From Poland riporta che la parlamentare Barbara Nowacka, in un’intervista a Gazeta Wyborcza, lo ha definito un rapporto politico sottolineando come non tutti i membri della commissione abbiano dato il loro assenso a firmarlo. La storia su Associated Press.
Il confine bielorusso
Se il confine con l’Ucraina ha mostrato una grande apertura della Polonia nei confronti dei rifugiati, qualche centinaio di chilometri più a nord si presenta una situazione completamente diversa. Sul confine bielorusso sono ancora bloccate decine di persone spinte dal regime di Lukashenko e bloccate da Varsavia. Una situazione che si protrae dalla scorsa estate e ha raggiunto il picco di drammaticità in autunno. È difficile stimare il numero delle persone che hanno perso la vita nella foresta di Białowieża. Le autorità dicono poco più di venti, ma il numero reale potrebbe essere molto più alto. Danuta Kuroń, moglie del compianto Jacek Kuroń, uno dei padri della patria della Polonia democratica, nonché uno dei fondatori di Solidarność ha scritto una lettera a cuore aperto all’ambasciato americano in Polonia Marek Brzezinski affinché interceda con il governo polacco affinché modifichi la sua condotta. La riporta Micromega.
Morawiecki contro Macron
Alla vigilia delle elezioni francesi il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki e il presidente transalpino Emmanuel Macron sono stati protagonisti di un duro botta e risposta che ha causato una piccola crisi diplomatica. A incendiare le polveri è stato Morawiecki, che ha criticato Macron per aver insistito troppo nelle trattative con Putin «Presidente Macron, lei avrebbe trattato con Hitler, Stalin o Pol Pot?».
L’esternazione non è piaciuta all’Eliseo, al punto che Macron ha replicato definendo Morawiecki un estremista di destra antisemita che perseguita gli omosessuali. Non è mancato riferimento al fatto che il premier polacco abbia cercato di favorire la sua avversaria Marine Le Pen durante la campagna elettorale. Parole che sono valse il richiamo dell’ambasciatore francese a Varsavia. La storia su Reuters e Notes from Poland.
Il blocco della minimum tax
Bufera europea su Varsavia per la sua decisione di opporsi all’adozione della minum tax del 15% sulle multinazionali. La ministra delle Finanze, Magdalena Rzeczkowska, ha spiegato la posizione polacca con le perplessità per l’adozione delle tempistiche dei due pilastri: il prelievo sulle 100 più grandi aziende del mondo, e l’applicazione dell’aliquota minima sull’imposta delle società. Il vicepresidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis ha auspicato che si possa giungere a un accordo entro il 24 maggio. Ne scrivono Ansa e Politico.
Polonia ai mondiali
La nazionale polacca di calcio approda ai mondiali di Qatar 2022 dopo aver sconfitto la Svezia con un perentorio 2-0, caratterizzato dai gol di Lewandowski e Zielinski. Una vittoria che ha il sapore della rivincita. Solo qualche mese fa era stata proprio la seleziona scandinava a estromettere la Polonia dal passaggio del turno agli europei di calcio. La cronaca della partita su Eurosport. La Polonia si giocherà le sue ambizioni mondiali nel gruppo C. Se il ruolo di favorita è assegnato d’obbligo all’Argentina, i ragazzi di Michniewicz possono comunque coltivare il sogno di qualificazione agli ottavi, giocandosela con Arabia Saudita e Messico. Una descrizione del girone su The Athletic.
Repubblica Ceca
Presidenza ceca Ue in arrivo
Dal 1° luglio la Repubblica Ceca assumerà la presidenza semestrale dell'Unione europea, ereditandola dalla Francia. Il periodo di presidenza ceca si annuncia già molto complesso vista la precaria situazione internazionale innescata dall'invasione russa dell'Ucraina e gli scontri fra Mosca e Bruxelles. A Praga il governo Fiala si sta preparando al passaggio di consegne con Parigi. E lo fa stringendo i cordoni della borsa, rispetto a quanto preventivato dal precedente esecutivo Babiš. Mancano fondi per pagare personale diplomatico extra a Bruxelles e allora si è deciso di ricorrere a studenti universitari per coprire vari ruoli da luglio a fine anno, attingendo al progetto Erasmus+. Tuttavia persino fra questi stagiaires c'è chi lamenta di essere costretto a dover pagare di tasca propria la permanenza nella capitale belga. La vicenda su Euractiv.
Sul semestre ceco di presidenza Ue ripone grandi speranze Boris Johnson. Secondo il Financial Times, il premier inglese si aspetta un approccio pragmatico di Praga e aperto alla discussione con il 10 di Downing street su una parte degli accordi di Brexit legati all'Irlanda del Nord. Una questione sulla quale ci sono tensioni irrisolte fra Johnson e l'attuale presidente francese Emmanuel Macron. Tuttavia, fondi diplomatiche del governo Fiala fanno sapere che non esiste un approccio ceco a Brexit, ma solo un approccio dell'Ue oltre a sottolineare che sino a fine anno a Bruxelles si discuterà soprattutto di Ucraina.
Truppe Usa benvenute?
Radio Praga riferisce che il ministero della Difesa di Praga starebbe discutendo con quello di Washington la possibilità di accogliere nel Paese la presenza di truppe statunitensi permanenti. Proprio di questo tema il ministro Jana Černochová parlerà con il suo omologo Lloyd Austin subito dopo Pasqua in occasione della sua visita negli Stati Uniti. L'idea del ministro ceco sarebbe quella di ispirarsi alla vicina Slovacchia dove prorio di recente il governo Heger ha concesso agli statunitensi l'utilizzo di due basi aeree per un periodo di dieci anni, fra molte polemiche interne.
Carri armati per Kiev
Intanto il governo Fiala è stato il primo nell'Unione europea ad autorizzare la fornitura di mezzi corazzati all'Ucraina, anche se non lo ha confermato in modo ufficiale. Nello specifico, il 5 aprile Praga ha inviato a Kiev cinque carri armati T-72 e cinque veicoli cingolati anfibi Bvp-1, questi ultimi di produzione ceca. Una fornitura militare che si aggiunge a quelle di armamenti difensivi organizzate nelle settimane precedenti. La notizia Via Reuters e Financial Times.
L’accoglienza della comunità ceco-vietnamita
Euronews si occupa dell'accoglienza riservata ai profughi provenienti dall'Ucraina da parte della locale comunità ceco-vietnamita. Le persone di origine vietnamita - molte di seconda o persino di terza generazione - rappresentano circa l'1% della popolazione ceca e hanno mantenuto forti legami comunitari. Anche grazie ad essi, hanno deciso di mobilitarsi in aiuto dei profughi ucraini arrivati nella Repubblica Ceca. Fra di essi vi sono anche circa 300 ucraini-vietnamiti, una piccola parte delle circa 7mila persone di origine vietnamita che risiedevano in Ucraina prima dell'inizio dell'invasione russa. Oggi si stima ne siano emigrate almeno 5mila.
Centro culturale rom e sinti
Un'altra comunità relativamente numerosa nella Repubblica Ceca sono le persone rom e sinti, purtroppo spesso oggetto di discriminazioni e al centro di casi di cronaca. In passato la Cecoslovacchia comunista cercò di 'assimilare' e rendere stanziali queste persone, usando anche metodi coercitivi, come del resto accadde in Polonia e Ungheria. Oggi la situazione è lungi dall'essere idilliaca, ma si diffondono iniziative per promuovere dialogo e conoscenza con rom e sinti. L'anno prossimo in una villa immersa nel verde dl quartiere praghese di Dejvice aprirà il primo centro culturale rom e sinti del Paese.Ospiterà associazioni ed esibizioni, a cominciare da una mostra dedicata al Porrajmos, il genocidio sistematico di rom e sinti compiuto dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale Via Radio Praga.
Il libro dell'anno, su Karel Gott
Si intitola 'Gott - Československý příběh', ovvero 'Gott - una storia cecoslovacca' e il 10 aprile si è aggiudicato il premio letterario Magnesia Litera, fra i più prestigiosi della Repubblica Ceca. Lo ha scritto l'autore e giornalista Pavel Klusák e si tratta di una biografia dedicata a Karel Gott, artista scomparso nel 2019 che fu la voce per eccellenza dell'ex Cecoslovacchia, divenendo popolarissimo nell'intera Europa orientale fra gli anni '60 e '80. Anche con la dissoluzione prima della Cortina di Ferro e poi della Cecoslovacchia stessa, Gott continuò a incidere dischi e a fare incetta di premi e di apparizioni televisive. La sua vicenda merita di essere raccontata in maniera approfondita e il libro di Klusák pare esserci riuscito. Qui un'intervista all'autore condotta da Ian Willoughby di Radio Praga.
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Slovacchia
Incontro Heger-Zelensky a Kiev
Quando la delegazione composta dai premier ceco, polacco e sloveno era partita in direzione Kiev per incontrare il presidente ucraino Zelensky, molti osservatori avevano notato la stridente assenza di due attori fondamentali della regione centro-orientale come gli esecutivi slovacco e ungherese. Se l’assenza dell’Ungheria con Orbán in piena campagna elettorale non aveva causato troppo stupore, quella del rappresentante slovacco era sicuramente più curiosa e non ha mancato di sollevare polemiche.
Negli scorsi giorni il titolare dell’esecutivo di Bratislava, Eduard Heger, ha infine deciso di recarsi a Kiev e ha fatto tappa anche a Bucha, cittadina salita tristemente agli onori della cronaca per gli eccidi commessi sulla popolazione civile da parte dell’esercito occupante in ritirata.
A margine della visita, Heger ha attaccato duramente l’opposizione e in particolare i suoi due predecessori Robert Fico e Peter Pellegrini, accusati di comportarsi come infiltrati russi. Il motivo del contendere sarebbe la donazione promessa dalla Slovacchia all’Ucraina del suo sistema di difesa antiaerea S-300 che, secondo le opposizioni, lascerebbe sguarniti i cieli slovacchi in attesa dell’arrivo dei sistemi Patriot di fabbricazione americana. Heger, come riporta Slovak Spectator, ha espresso totale solidarietà all’Ucraina ricordando che la guerra che si combatte sul loro territorio riguarda tutta l’Europa e ha ricordato che, se l’Ucraina fosse caduta nei primi giorni di guerra, oggi ci sarebbero truppe russe al confine con la Slovacchia.
MiG slovacchi nel cielo di Kiev?
Dopo che per settimane si è protratto il dibattito sull’opportunità e sul rischio che le forze armate polacche mettessero degli aerei militari MiG a disposizione dell’esercito ucraino, il tema torna attuale sul fronte slovacco. Il premier Eduard Heger, di ritorno dalla visita ufficiale a Kiev per incontrare il presidente ucraino Zelensky, ha aperto alla possibilità di offrire i MiG in dotazione all’esercito di Bratislava anche perché li avrebbe comunque dismessi, fosse anche solo per motivi storici e culturali. Come riporta Politico facendo il punto della situazione, Heger ha affermato che «non possiamo mantenere armamenti sovietici non avendo più rapporti con la Russia». Come nel caso che ha fatto discutere quando c’era di mezzo la Polonia, anche per la Slovacchia il tema strategico riguarda lo spostamento di questi mezzi nello spazio aereo ucraino e il rischio di coinvolgimento diretto o indiretto della Slovacchia nel conflitto.
Lotta alla propaganda
Nessun Paese è immune alla propaganda, da qualunque parte essa arrivi. Nei giorni che viviamo, in particolare, gli strenui sforzi degli apparati diplomatici russi per giustificare agli occhi del mondo l’invasione in Ucraina sono un tema di cui occuparsi seriamente. La Slovacchia, a lungo in testa alla poco lusinghiera classifica dei Paesi più facili da infiltrare da parte della propaganda russa, sembra maturare una consapevolezza diversa. Media apertamente gestiti da persone coinvolte in operazioni di spionaggio sono stati chiusi e la continuità tra chi diffondeva notizie false legate alla pandemia e chi lo fa ora in merito all’invasione russa dell’Ucraina è un elemento messo sotto la lente d’ingrandimento da istituzioni e media. Un’analisi su Reporting Democracy.
Socialisti sulla carta
Partiti nominalmente socialdemocratici hanno governato la Slovacchia nell’ultima legislatura, legando le proprie sorti a leader molto discussi come Robert Fico e a scandali di rara gravità come l’uccisione del giornalista investigativo Ján Kuciak. A guardarle bene, le politiche di partiti come Smer-Sd si sono spesso improntate a valori lontani da quelli progressisti e socialisti. Osservare partiti e movimenti politici di Paesi usciti dal socialismo reale con i filtri occidentali rischia di portare a errori di valutazione e considerazioni marchiane. Un pezzo di Gianmarco Bucci su East Journal ci aiuta a fare il punto sull’universo, a parole, socialdemocratico della politica slovacca.
Neonazisti condannati
Marian Kotleba è un uomo politico slovacco che ha fatto spesso parlare di sé per le sue posizioni di estrema destra e per una simpatia mai troppo nascosta per Jozef Tiso, presidente dello stato fantoccio collaborazionista dei nazisti che ha retto i territori slovacchi durante la seconda guerra mondiale. Kotleba, il cui partito è in parlamento per la seconda legislatura consecutiva, è stato condannato in primo grado a sei mesi di reclusione per gesti simbolici di apprezzamento verso il nazismo. Uno dei gesti incriminati è stato visto nella donazione di 1488 Euro a tre famiglie il 14 marzo, giorno dell’insediamento del governo Tiso di cui sopra. Se non fosse bastata la provocazione della data scelta, c’è anche quella della cifra. Come fatto notare su Kafkadesk, 14 e 88 sono cifre a cui la comunità neonazista internazionale attribuisce simboli molto chiari.
Chi siamo, dove siamo
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