Eroi, reietti e hockeisti. La storia nella toponomastica di Varsavia
di Salvatore Greco
Dekomunizacja. Una parola che, a orecchie occidentali, suona inequivocabilmente esotica e al contempo di facile interpretazione. Evoca scenari burocratici e disegni chiari. Nel caso specifico, quello di decomunistizzazione.
Nei Paesi ex-socialisti, lo spazio simbolico del movimento operaio ha assunto declinazioni molto varie.
In Russia un partito dichiaratamente comunista è un attore importante della politica nazionale, nella Repubblica Ceca lo è stato fino alla legislatura da poco conclusa, in Germania l’armamentario semiotico dei nostalgici della Ddr ha persino creato il neologismo Ostalgie.
In Polonia, nulla di ciò è lontanamente immaginabile. Per motivi che hanno radici più profonde del periodo comunista in sé, il ricordo della Repubblica popolare polacca è svuotato di ogni nostalgia positiva. Il partito comunista polacco (Kpp) conta poche centinaia di militanti e vive sul filo dello scioglimento, e nessun leader del socialismo reale merita oggi un posto nella memoria collettiva.
Nonostante ciò, la dekomunizacja in Polonia è un processo attivo ancora oggi, e agisce in particolare sulla toponomastica, unico spazio simbolico dove qualche riferimento al passato comunista può essere rimasto. Come definire, però, questo passato? E quali sono i confini del pensiero totalitarista di cui la costituzione polacca vieta la diffusione?
Non è un problema da poco, dal momento che tra i padri fondatori della repubblica polacca ci sono stati esponenti dell’allora partito socialista, del tutto slegato gerarchicamente dal bolscevismo russo ma con obiettivi ideologici affini. Possono restare patroni di strade e piazze o vanno cancellati? E in che modo?
La topografia di Varsavia è un contesto ideale per affrontare la questione. Il modo in cui la capitale ha scelto i suoi eroi, ne ha cancellati alcuni e modificati altri è una prospettiva interessante sul modo in cui la Polonia di oggi vede sé stessa e la sua storia.
Quelli che ce l’hanno fatta:
Daszyński, Edelman e gli altri
Rondo Daszyńskiego è una rotonda a quattro uscite che si trova nel quartiere varsaviano di Wola, a ovest del centro storico della capitale. Oggi ospita sofisticati grattacieli e le sedi di molte multinazionali, e nelle sue vicinanze la probabilità di incontrare giovani professionisti che parlano un inglese impeccabile è piuttosto alta. Non è privo di ironia che questo feudo di capitalismo globalista si sia costruito proprio nella rotonda intitolata a Ignacy Daszyński, militante socialista della prima ora, co-fondatore nel 1860 del partito socialdemocratico polacco e poi primo ministro del governo provvisorio che portò alla rinascita della Polonia indipendente nel 1918. Tra le sue proposte costituenti, il suffragio universale aperto anche alle donne e la nazionalizzazione di settori strategici dell’economia. Per usare delle sue parole pronunciate nel 1918:
“L’operaio non può diventare vittima dello sfruttamento capitalista. Miniere, ferrovie, boschi e grandi industrie devono diventare di proprietà del popolo. Deve essere introdotta la giornata lavorativa di otto ore [...] e gli operai devono essere ammessi a partecipare al controllo delle industrie. La classe operaia deve convincersi di essere pronta con il tempo a prendere nelle sue mani tutto il controllo dei mezzi di produzione”.
Ulica Marka Edelmana è una via tranquilla del, già di per sé silenzioso, quartiere di Muranów, distretto storico che si espande sul territorio di due municipi a nord del centro storico. Sorge sulle macerie dell’antico quartiere settentrionale, un tempo il quartiere ebraico di Varsavia e poi sede del ghetto costruito dagli occupanti nazisti durante la guerra e distrutto in seguito alla sua liquidazione nel 1943. L’ultimo, disperato, atto di resistenza alla liquidazione fu l’insurrezione del ghetto che vide tra i suoi capi il futuro cardiologo Marek Edelman, uno dei pochi sopravvissuti di quella vicenda e oggi titolare di una via proprio nel cuore di Muranów. All’epoca poco più che ventenne, Edelman all’interno del ghetto era un leader del Bund, il partito socialista ebraico, membro a pieno titolo dell’internazionale socialista e molto diffuso in Polonia, Russia e Lituania dove la comunità ebraica assimilata era diffusa e politicizzata, con un fervente dibattito in particolare tra socialisti e sionisti. Oggi nessuno pensa a Edelman come a un socialista, ma gli si farebbe un torto a dimenticare cosa e come lo ha mosso all’azione quando è stato necessario.
Ulica Ludwika Waryńskiego è un’importante arteria del centro di Varsavia, collega il quartiere meridionale di Mokotów al cuore della città e porta a due passi da uno dei simboli della capitale polacca, il suo Politecnico. Il fatto di essere morto di tubercolosi in una prigione zarista, e per di più in anni in cui un terzo abbondante del territorio polacco era sotto controllo russo, ha permesso a Waryński di conquistarsi un ruolo da patriota nei libri di storia polacca persino oggi. Il ‘persino’ è d’obbligo, dal momento che Waryński è passato alla storia sì come patriota polacco contro l’occupante zarista, ma anche e soprattutto come fondatore di un partito dall’eloquente nome di Proletariat, prima formazione di dichiarata ispirazione marxista nata in Polonia e legata al gruppo politico-terroristico russo di Narodnaja Volja i cui esponenti nel 1881 hanno colpito a morte lo zar Alessandro II. Tra i punti programmatici che Waryński tentò di diffondere tra la nascente classe operaia polacca c’erano i punti classici del pensiero marxista, a partire dalla socializzazione dei mezzi di produzione che oggi farebbe venire i brividi a molti degli automobilisti che oggi su Ulica Waryńskiego aspettano ai semafori o cercano parcheggio davanti allo Starbucks locale.
Aleja Armii Ludowej è una grande strada a quattro corsie che attraversa il centro di Varsavia, non lontano per altro dalla succitata Ulica Waryńskiego. La Armia Ludowa, a cui la strada è intitolata, era uno degli eserciti partigiani che hanno combattuto in Polonia contro l’occupante nazista durante la II guerra mondiale. Uno dei due eserciti, nello specifico. Accanto all’Armia Ludowa (letteralmente, Esercito popolare) c’era l’Armia Krajowa (letteralmente, Esercito nazionale). E mentre quest’ultimo era emanazione del governo polacco in esilio a Londra, il primo era finanziato e sostenuto dall’Unione Sovietica, con tutto quello che ne consegue.
Nella mitopoiesi della Polonia post-89, le gerarchie sono chiare: l’Armia Krajowa gode dello spazio simbolico pressoché esclusivo nel dibattito pubblico, mentre il ruolo dell’Armia Ludowa nella resistenza viene sistematicamente sminuito o messo in discussione. I dati storiografici sembrano confermare che in effetti il contributo dell’Armia Ludowa sia stato nettamente inferiore, in termini di uomini e di risultati, a quello propagandato durante gli anni del socialismo.
Fatto sta che diverse migliaia di persone, al di là del loro orizzonte ideologico, hanno combattuto contro l’occupazione nazista e hanno contribuito a organizzare la resistenza. Che farsene di loro? L’Istituto per la memoria nazionale (Ipn), a cui spetta il compito della decomunistizzazione, ha provato in passato ad appellarsi alla legge che vieta la propaganda comunista e di altri regimi totalitari per provare a togliere all’Armia Ludowa il suo spazio sulla mappa di Varsavia.
Per un certo periodo di tempo, la strada ha anche cambiato nome, diventando via Lech Kaczyński, in onore dell’ex sindaco di Varsavia ed ex Presidente della repubblica polacca morto durante il tristemente noto incidente aereo avvenuto a Smolensk il 10 aprile del 2010. Il cambio di nome non ha avuto fortuna, il comune di Varsavia ha fatto ricorso in tribunale contro la decisione (imposta alla città e non condivisa con l’amministrazione) e ha riportato il nome della strada ai soldati dell’Armia Ludowa. Difficile dire se più per sincero atto di solidarietà ai soldati morti per liberare la città, o per ribellione verso l’idea di avere l’ennesimo tributo a Kaczyński in una città elettoralmente avversa alla sua parte da molti anni ormai.
Quelli che non ce l’hanno fatta:
Stalin, Dzierżyński e Stalingrado
Quello che permette a personaggi come Waryński e Daszyński di resistere fino a oggi nella toponomastica di Varsavia è l’assenza totale di legami con l’esperienza sovietica. Saranno stati avidi lettori di Marx e sinceri fautori del socialismo, ma pur sempre in chiave polacca e antizarista, non hanno diviso nulla con l’avvento del bolscevismo e le sue conseguenze totalitarie.
L’avere creduto nel socialismo, di per sé, è un peccato perdonabile. Senza contare che i bolscevichi non hanno mai visto di buon occhio il movimento operaio autoctono in Polonia, tanto che i quadri dirigenti dell’allora partito comunista polacco caddero tutti negli anni ’30, vittime delle purghe di Stalin.
Proprio quello Stalin che poi, da faro del socialismo, avrebbe imposto la sua presenza simbolica a Varsavia nell’immediato dopoguerra. Dal 1945, il grande viale alberato che oggi si chiama Aleje Ujazdowskie, e ospita le più importanti ambasciate internazionali, prende il nome di viale Jozef Stalin. Per una certa ironia della sorte, è la stessa strada su cui sei anni prima aveva sfilato la Wehrmacht alla presenza di Hitler dopo la capitolazione di Varsavia di fronte all’invasione nazista.
Per vedere sparire Stalin dai loro stradari, i varsaviani non hanno dovuto aspettare il 1989 e la dekomunizacja. Anzi, la strada ha perso il nome del dittatore già pochi mesi dopo la sua morte, nell’autunno del 1955, nell’impeto di zelo delle autorità a portare avanti il disgelo chruščëviano.
In compenso, un altro protagonista della rivoluzione d’ottobre ha tenuto saldo il suo posto fino alla fine: Feliks Dzierżyński, il più famoso bolscevico di origine polacca a cui va il dubbio onore di avere fondato e diretto la Čeka, la polizia segreta sovietica che poi avrebbe lasciato posto al più famoso Kgb.
Dzierżyński, uno dei dirigenti sovietici più amati e immortalati in giro per i satelliti dell’Urss, a Varsavia vantava un’enorme statua e una piazza che portava il suo nome nel cuore della capitale. Quella che oggi i varsaviani conoscono come Plac Bankowy, nome che ha riottenuto nel 1989. E al posto della statua, irricevibile, di Dzierżyński, oggi svetta quella del poeta romantico Juliusz Słowacki.
Se non c’è posto per Stalin e per gli stalinisti, non può essercene nemmeno per Stalingrado. La città sul Volga, che era stata protagonista di una delle più grandi battaglie della II guerra mondiale, ha meritato posto nella toponomastica di Varsavia fino al 1992.
Mentre a Bologna, per fare un esempio, a nessuno verrebbe mai di cambiare nome a via Stalingrado, togliere dalle targhe ulica Stalingradzka è stato per la città di Varsavia quasi un dovere, visto che la storiografia dominante oggi non vede in quella nota battaglia l’inizio della liberazione dell’Europa dal nazismo, ma soltanto la sostituzione di un totalitarismo con un altro. Cosa che trova sponda nel dettato costituzionale polacco contro i totalitarismi e che ha fatto sì che oggi la strada si chiami semplicemente Jagiellońska, con riferimento alla dinastia che ha regnato sulla Polonia per tutto il XVI secolo.
Poca pietà pure per simboli del movimento operaio poco o niente legati a quelli del socialismo reale in salsa sovietica. Dal 1990, Varsavia ha perso la sua piazza dedicata alla Comune di Parigi (diventata piazza Woodrow Wilson) e la via che onorava le brigate internazionali che hanno combattuto contro il franchismo durante la guerra civile spagnola. Quella strada oggi è dedicata al battaglione Kordian, una delle divisioni interne dei partigiani dell’Armia Krajowa.
Quelli che… oltre al danno la beffa.
La toponomastica di una città è materia incredibilmente delicata. Perché da un lato tocca lati emotivi e simbolici importanti, se non addirittura nevralgici, nel costruire l’identità collettiva di una comunità. Non sarebbe possibile immaginare Varsavia capitale di una democrazia parlamentare piena di strade facenti riferimento al suo passato monopartitico. D’altro canto, intervenire sulla toponomastica ha dei risvolti pratici con i quali giocoforza si deve fare i conti e che non possono essere elusi.
Cambiare nome a una strada significa, banalmente, una quantità di scartoffie enormi con cui avere a che fare. Non è una cosa che si può fare alla leggera. Ed è qui che entrano in campo gli espedienti e un atteggiamento vagamente gattopardesco di affrontare la cosa.
È così che la strada dedicata al militante comunista Julian Bruno, dal 2017 è diventata via Giordano Bruno. Un compromesso forse non del tutto soddisfacente per la fronda più conservatrice della Chiesa, ma tutto sommato accettabile.
La stessa sorte è accaduta, sempre nel 2017, alla via dedicata a Józef Ciszewski, fondatore del partito comunista polacco, che è stata attribuita in extremis a Jan Ciszewski, commentatore sportivo. Come se in Italia via Antonio Gramsci diventasse all’improvviso via Sandro Ciotti, per capirci.
Anche se il colpo più brillante di questa fatta spetta alla via dedicata al militante comunista Aleksandr Kowalski riassegnata ad… Aleksandr Kowalski, un perfetto omonimo, ma ben più innocuo giocatore di hockey e poi ufficiale polacco durante la guerra, vittima dell’eccidio sovietico di Katyń. Un caso di decomunistizzazione senza spargimento di preziosi fondi pubblici.
Di casi del genere se ne potrebbero analizzare molti altri. Agli stradari non spetta il compito di scrivere la storia, ma è innegabile il ruolo che hanno nel costruire l’identità. Quelli di Varsavia segnano una prospettiva abbastanza chiara.
Più che di un passato ideologicamente connotato, Varsavia sembra volersi liberare di uno dalle note coloniali. Dalle sue strade cadono i nomi di dirigenti e simboli del potere sovietico in quanto arrivato dall’esterno, continuazione storica e geografica, per quanto non ideologica, di un dominio più antico che pone le radici nello zarismo e nelle spartizioni della Polonia.
Forse anche in questo potremmo cercare una chiave di lettura per capire la Polonia contemporanea, le sue idiosincrasie e lo iato oggi sempre più evidente tra le posizioni della sinistra occidentale e quella locale.
Basta ripartire nell’analisi dalla strada. Letteralmente.