I polacchi di Harbin, Cina
di Lorenzo Berardi
A Harbin in inverno fa freddo, un freddo gelido capace di mozzare il fiato. Fra dicembre e febbraio in questo angolo nord-orientale della Cina le temperature medie scendono attorno ai -20° Celsius e il fiume Songhua, che costeggia la città, diventa un’immensa lastra di ghiaccio. Nonostante queste condizioni metereologiche proibitive, oggi Harbin è una megalopoli da dieci milioni e mezzo di abitanti e capoluogo della provincia di Heilongjiang. Il gelo invernale che la attanaglia ha contribuito a renderla celebre, grazie alle mirabolanti creazioni del suo annuale Festival internazionale delle sculture di ghiaccio e neve, istituito nel 1999.
Eppure per 4000 anni, fino al 1898, nell’area dove oggi sorge la città si trovavano solo alcuni villaggi, disseminati in una delle aree più remote del territorio cinese, rimasta semi-disabitata dopo le devastazioni dell’invasione mongola nel lontano XIII secolo. A cambiare le carte in tavola fu l’arrivo della strada ferrata. E di locomotive con scritte in cirillico. Da Harbin, infatti, passava il tragitto originario della Transiberiana, che ancora oggi collega Mosca a Vladivostok lungo un percorso di 9300 chilometri e otto fasce orarie. Anche se gran parte del tumultuoso sviluppo demografico urbano è avvenuto solo negli ultimi 25 anni, quelli del boom economico cinese, la nascita di questa metropoli di frontiera si deve proprio alla ferrovia. E ai numerosi polacchi che contribuirono a realizzarla.
L’arrivo degli ingegneri polacchi
L’inizio della presenza polacca a Harbin ha un nome e un cognome, quelli di Adam Szydłowski. Fu un ingegnere assunto dalla Ferrovia Orientale Cinese, impegnata nel completamento del troncone orientale della Transiberiana alla fine del XIX secolo. Szydłowski – al pari di altri connazionali coinvolti nell’ambizioso progetto ferroviario – lavorava per i russi, che all’epoca si spartivano l’odierna Polonia con la Prussia e con l’Impero austro-ungarico. Arrivò in Cina nel 1897 e fece di Harbin, allora un villaggio di pescatori sul fiume Songhua, la propria base. Szydłowski lo trasformò in una dinamica cittadina nella quale alloggiare gli ingegneri al lavoro nella costruzione della Transiberiana, gli ufficiali di Mosca e parte delle maestranze. Fra queste migliaia di operai, il 30% erano patrioti e rivoluzionari polacchi deportati in Siberia dai russi, ma si contavano anche armeni, estoni, georgiani, greci, lituani, mongoli e turchi. L’insediamento accolse inoltre rappresentanti austriaci, belgi, inglesi e tedeschi delle ditte fornitrici della Ferrovia Orientale Cinese.
Per dare a questa Harbin cosmopolita, multietnica e multiconfessionale un aspetto familiare, l’ingegnere polacco si affidò a un urbanista, il connazionale Konstanty Jokisz. Questi pianificò l’abitato come la somma di due distinti insediamenti a maglia ortogonale, divisi dalle diramazioni dei binari della ferrovia. Le strade di una delle due metà di Harbin convergevano su varie piazze alberate e conducevano alla stazione ferroviaria. Da questo edificio Art déco si dipanavano le arterie del secondo nucleo cittadino, che raggiungevano la sponda meridionale del Songhua. Il panorama urbano caratterizzato da eleganti edifici in pietra era dominato da tre luoghi di culto: la cattedrale ortodossa di Santa Sofia, ultimata nel 1932, la Grande sinagoga aperta nel 1909 e la neogotica chiesa cattolica di San Stanislao dove, a partire dal 1907, si riunivano i fedeli polacchi. In seguito, vennero costruiti altri luoghi di culto ortodossi, un tempio protestante per i germanofoni, una seconda chiesa per i polacchi, San Giuseppe, e anche una nuova sinagoga.
La Transiberiana scavalcava il fiume con un viadotto d’acciaio di 950 metri, il più lungo dei 1170 ponti costruiti dagli operai della Ferrovia Orientale Cinese. Venne inaugurato nel 1901 e a coordinarne la costruzione fu un altro ingegnere polacco, Stanisław Kierbedź, nipote di un omonimo zio che aveva progettato il ponte Kierbedź sulla Vistola a Varsavia, distrutto dai nazisti nel 1944 e oggi rimpiazzato dal meno iconico Śląsko-Dąbrowski. Il ponte Kierbedź di Harbin, invece, è ancora in piedi, anche se molti suoi elementi originari, provenienti dalle fonderie polacche di Zawiercie e Dąbrowa Górnicza, sono stati sostituiti.
Espansione, epidemia e prosperità
Fra il 1905 e il 1906 a Harbin visse anche un medico militare arrivatovi a seguito della Guerra russo-giapponese e spesso costretto a operare all’interno di ospedali improvvisati in vagoni ferroviari. Si chiamava Janusz Korczak. Sarebbe divenuto un grande pedagogista, nonché un uomo capace di sacrificare la propria vita per non abbandonare i bambini del suo orfanotrofio nel Ghetto di Varsavia quando i nazisti li deportarono nel campo di sterminio di Treblinka nell’agosto 1942. La Harbin nella quale visse Korczak agli albori del XX secolo era in piena espansione commerciale e culturale, ma ancora divisa fra un’area russo-europea e il popoloso quartiere cinese di Fujiandian. L’epidemia di peste polmonare della Manciuria che si abbatté sulle province nord-orientali della Cina fra l’autunno del 1910 e la primavera del 1911 arrestò questo fermento, colpendo duramente la città. Questa pestilenza – proveniente dalle marmotte e che fu la prima al mondo durante la quale vennero adoperate mascherine protettive dai medici – uccise almeno il 5% della popolazione di Harbin.
Superata l’epidemia, la città tornò a prosperare. Nel censimento del 1913 Harbin contava 69mila abitanti di 53 nazionalità e vi si parlavano 45 lingue. Quell’anno gli harbiniani polacchi erano 2600, ma è lecito supporre che molti dei cinquemila ebrei di Harbin fossero nati in Polonia. I russi erano la metà dei residenti e sarebbero cresciuti ancora dopo la Guerra civile del 1917-1923, quando numerosi ‘rifugiati bianchi’ anti-comunisti ripararono a Harbin. Superato il traguardo dei 100mila abitanti nel 1917, pochi anni dopo la città ospitava anche la più numerosa comunità di ebrei europei dell’Estremo Oriente, superiore persino a quella di Shanghai. Al suo apice, sino a 25mila persone di fede ebraica chiamarono ‘casa’ questo centro urbano distante 400 chilometri in linea d’aria dal Mar del Giappone e dal porto russo-sovietico di Vladivostok, capolinea orientale della Transiberiana.
In quei medesimi anni ’20, i polacchi di Harbin sfioravano le 10mila unità. Nel giro di appena cinque lustri dal loro approdo nel capoluogo della Manciuria, vi avevano istituito un Consolato, una Camera di commercio, due scuole elementari, il ginnasio Henryk Sienkiewicz, un dormitorio per indigenti, gruppi scout e club sportivi. Furono inoltre i primi a coltivare la barbabietola da zucchero in Cina, aprendo uno zuccherificio ad Aszyche, a 40 chilometri da Harbin, e un birrificio. Quest’ultimo venne fondato nel 1900 da Jan Wróblewski, un imprenditore di Tarczyn, e oggi produce ancora in loco un’apprezzata birra lager a marchio Harbin Brewery. Sia lo zuccherificio che la fabbrica di sigarette Lopato, creati rispettivamente da residenti cattolico-polacchi ed ebreo-polacchi, hanno invece chiuso i battenti.
Fra i successi imprenditoriali della loro comunità, spicca quello di Władysław Kowalski, che divenne uno degli uomini più ricchi di Harbin aggiudicandosi la concessione per un territorio boscoso di seimila chilometri quadrati lungo la ferrovia. Lo trasformò in una miniera d’oro, grazie a una segheria in cui migliaia di operai producevano pannelli di compensato. Con i proventi, Kowalski si fece costruire una lussuosa dimora che non avrebbe sfigurato a Cracovia o a Varsavia. Per circa tre decenni, grazie alla presenza dell’associazione Gospoda Polska e di pubblicazioni come il quotidiano Polski Kurjer Wieczorny Dalekiego Wschodu, il settimanale Tygodnik Polski e il mensile Listy Harbińskie (poi Daleki Wschód), ma anche di cinema, teatri ed eventi mondani, la vita culturale della Harbin polacca prosperò.
Guerra, rimpatri obbligati e comunismi
In seguito all’invasione giapponese della Cina nord-orientale, il 4 febbraio 1932 Harbin venne conquistata dalle truppe del Sol Levante, che vi instaurarono la capitale di un loro Stato fantoccio, il Manciukuò o Impero della Grande Manciuria. Questa dittatura militare copriva un immenso territorio corrispondente a quello di tre attuali province cinesi, Heilongjiang, Jilin e Liaoning. Durò appena 13 anni, ma agli invasori furono sufficienti per rimpiazzare il russo con il giapponese come seconda lingua ufficiale, vietare tutte le pubblicazioni polacche (a partire dal ’42), nonché per acquisire la Ferrovia Orientale Cinese. In questo periodo molti russi lasciarono la città e fra quelli che rimasero crebbe il consenso per un movimento fondato proprio a Harbin nel ’31 – lo stesso anno in cui la Grande Sinagoga venne data alle fiamme – il Partito fascista russo (Rfp), il cui simbolo era una svastica nera su sfondo giallo-bianco. Ritrovatisi fra l’incudine dei fascisti antisemiti locali e il martello dei brutali occupanti giapponesi, numerosi polacchi cattolici ed ebrei abbandonarono Harbin: qualcuno rientrò in patria.
L’Rfp venne sciolto nel luglio ‘43, mentre il Manciukuò cessò di esistere nell’agosto di due anni dopo; quando i soldati dell’imperatore Hirohito si ritirarono dalla Cina, a Harbin entrò l’Armata Rossa sovietica. Dopo varie vicissitudini, il 1° ottobre 1949 venne proclamata la Repubblica Popolare Cinese e il governo della Polonia fu uno dei primi a riconoscerla a livello internazionale. Tuttavia, la presenza polacca a Harbin era al crepuscolo. Fra il 3 e il 24 luglio di quell’anno, tre convogli avevano lasciato la stazione ferroviaria cittadina per raggiungere la Polonia attraversando l’Urss lungo i binari della Transiberiana. In totale trasportarono fra le 784 e le 807 persone. Un apposito Ufficio per il rimpatrio polacco (Pur) creato dalla nuova Polonia sorta dalle ceneri della Seconda guerra mondiale concesse loro carte di soggiorno permanenti e pacchi alimentari. Ad attenderli alla stazione di Biała Podlaska, la prima in territorio polacco, c’erano i rappresentanti dei 14 voivodati polacchi, poiché era stata pianificata in anticipo la distribuzione dei passeggeri in ogni angolo del Paese. Gli harbiniani non poterono scegliere da soli i propri nuovi luoghi di residenza e quasi tutti vennero insediati nei centri urbani, per le maggiori possibilità di trovarvi lavoro. 174 persone finirono nella provincia di Stettino, 145 in quella di Breslavia, 138 a Olsztyn, 83 a Danzica e altre a Cracovia o a Varsavia.
Dopo questi rimpatri, in Manciuria rimasero solo 450 polacchi. Negli anni seguenti, le solide relazioni diplomatiche instauratesi fra Pechino e Varsavia si tradussero nella scelta politica condivisa di obbligare ulteriori rientri. Questo accadde perché l’autarchica Cina maoista non voleva stranieri al suo interno, mentre la Polonia socialista desiderava riportare connazionali in patria per ripopolare il Paese. Agli harbiniani polacchi la cui permanenza nei luoghi natii era divenuta insostenibile, non restò altra scelta che ‘rientrare’ in patria sotto l’egida del Pur, oppure cercare fortuna altrove. Circa 200 di loro raggiunsero la Polonia su due navi cargo della Polskie Linie Oceaniczne (Plo), la Ms Kiliński e la Ms Mickiewicz, fra il 1950 e il 1963.
Le restanti 250 persone, che non volevano trasferirsi per vivere nella Polonia dell’epoca, emigrarono in Australia, negli Stati Uniti, in Brasile e in Canada, mentre molti di coloro che erano di fede ebraica raggiunsero Israele. Svuotata dai suoi ex residenti d’origine polacca, a eccezione di una singola famiglia, Harbin ne perse la memoria. La Rivoluzione culturale imposta in Cina dal presidente Mao Zedong nel 1966 comportò inoltre la sistematica distruzione di manufatti, documenti e luoghi di culto testimoni della presenza polacca in Manciuria. Persino il cimitero polacco-cattolico e polacco-ebraico di Harbin vennero devastati dai solerti comunisti locali; si salvarono solo una decina di tombe, poi trasferite a 20 chilometri di distanza, nel cimitero di Huangshan, dove sono visibili ancora oggi.
Testimonianze dell’Harbin polacca
Oggi in Polonia restano scarse tracce della trascorsa diaspora di Harbin. Per scoprirle occorre recarsi a Stettino, città all’estremità nord-occidentale del Paese. Qui si trovano una rotonda intitolata alla ‘Polonia manciuriana’ e un’anonima villetta color magenta di periferia, sede dello Szczecińskie Stowarzyszenie Klub Harbińczyków (Sskh), il locale club degli ex harbiniani. Lo presiede Romuald Oziewicz, che si presenta così a Centrum Report:
«Nacqui a Harbin nel gennaio 1950. Mio padre Adolf vi era nato nel 1912, mentre mia madre Janina era arrivata in Manciuria nel 1916, ad appena un anno d’età, assieme a mio nonno Adam, impiegato della Ferrovia Orientale Cinese. Entrambi i miei genitori crebbero, studiarono e trascorsero gran parte della loro vita a Harbin. Non se ne sarebbero mai andati, ma le condizioni politiche in Cina cambiarono alla fine degli anni ’40 e ci furono crescenti pressioni esercitate sui non cinesi per costringerli a lasciare il Paese».
A causa di queste pressioni, Romuald – forse l’ultimo polacco in assoluto ad essere nato a Harbin – rimase in Cina per meno di tre anni:
«Nell'ottobre 1952 la mia famiglia decise di lasciare per sempre la nostra amata città. Ci imbarcammo sulla Ms Mickiewicz e salpammo per il porto polacco di Gdynia. Quando vi approdammo, fummo trasferiti direttamente a Stettino dal Pur».
La destinazione imposta non fu casuale. Gli Oziewicz finirono in un centro urbano svuotato dall’addio degli originari abitanti di lingua tedesca. Furono profughi che presero il posto di altri profughi. Nel luglio del 1949, nella città passata dalla Germania alla Polonia quattro anni prima al termine della Seconda guerra mondiale, erano arrivati – lo abbiamo visto – 174 polacchi di Harbin. Fra il ‘56 e il ‘57 gli harbiniani rimpatriati in Polonia organizzarono una rete di cinque club con sezioni a Varsavia, Trójmiasto (area urbana che comprende Danzica, Sopot e Gdynia), Stettino, Elbląg e Olsztyn. Erano legati alla Società dell’amicizia polacco-cinese (Tppch), ma chiusero i battenti poco dopo la Rivoluzione culturale di Mao del ‘66. Solo nel 1988 un gruppo di 72 ex harbiniani di Stettino decise di (ri)formare un proprio club, ora presieduto da Oziewicz.
Non si tratta dell’unica associazione di questo tipo in Polonia. A Świebodzice, cittadina della Bassa Slesia, ha sede infatti il Dolnosląskiego Klubu Harbińczyka w Świebodzicach (Dkhs). È stato fondato nel settembre 2018 e lo presiede Aleksander Jermakow. A differenza di Romuald Oziewicz, non è nato in Cina, ma la sua famiglia vi giunse nel 1924, dopo essere stata deportata lungo il fiume Amur in Siberia. Racconta a Centrum Report:
«A Harbin, mio nonno e mia nonna iniziarono a lavorare nel trasporto di merci lungo la ferrovia, mentre mia madre vi nacque nel 1924. Mia sorella Irena, invece, vide la luce ad Aszyche, nei pressi di Harbin. I nonni vennero rimpatriati a bordo di un treno nel 1949 e si stabilirono in un’ex fattoria tedesca a Ciernie, oggi parte di Świebodzice, divenendovi contadini e allevatori. I miei genitori e Irena li raggiunsero in Polonia nella primavera del ‘53, a bordo di una nave e al termine di un viaggio lungo tre mesi e mezzo. Rilocati a Stettino, mia madre vi trovò lavoro come bibliotecaria e mio padre nei cantieri navali. In seguito, si trasferirono anche loro a Ciernie. Per questo, sono nato a Świebodzice».
Nonostante a tutt’oggi non abbia mai visitato il luogo natale della madre, Jermakow ha sempre avvertito un legame speciale verso di esso e sogna di recarvisi. Come riferisce lui stesso:
«Nella mia memoria ricorrono frequenti conversazioni su Harbin e le sue scuole polacche, la chiesa di San Stanislao e le serate danzanti all’Hotel Modern. Spesso durante la mia infanzia i miei genitori cucinavano ravioli cinesi-russi, che ho imparato a fare anche io. A casa il menu prevedeva più spesso il riso delle patate e ancora oggi il riso è il mio contorno preferito. Ho conservato fotografie e vasellame provenienti da Harbin e voglio salvaguardare la memoria di quel luogo per i posteri. Sul sito web del nostro club si trova una pagina commemorativa della Harbin polacca che include i ricordi degli harbiniani e le loro fotografie. Da anni raccolgo le memorie di queste famiglie».
Da Stettino gli fa eco Romuald Oziewicz, che qualche anno fa condusse i giornalisti dell’agenzia di stampa cinese Xinhua alla scoperta dei luoghi della diaspora polacca nel capoluogo dell’Heilongjiang:
«Preserviamo la memoria dei polacchi di Harbin e della Manciuria sia organizzando riunioni del nostro club che attraverso una stretta collaborazione con la Biblioteca della Pomerania a Stettino, dove sono conservati molti cimeli del soggiorno dei polacchi a Harbin e in altri centri cinesi dove sorgevano stazioni ferroviarie. Organizziamo mostre e conferenze tematiche dedicate al grande contributo dei polacchi alla costruzione e allo sviluppo della Ferrovia Orientale Cinese e di Harbin stessa».
Scorci polacchi di Harbin
Oggi i due club di harbiniani polacchi si tengono in contatto, ma raramente riescono a organizzare eventi congiunti oppure a partecipare gli uni alle iniziative degli altri. I 400 chilometri che separano Stettino da Świebodzice non aiutano e siccome molti dei soci dell’Sskh e del Dkhs sono anziani, la pandemia degli ultimi due anni non li invoglia a incontrarsi di persona.
L’ultimo residente della diaspora polacca di Harbin fu un ingegnere ferroviario, come lo era stato il primo. Si chiamava Edward Stokalski e lasciò la Cina il 10 dicembre 1993, ormai ottuagenario, per trascorrere i propri ultimi mesi di vita in una casa di riposo di Varsavia, in una Polonia che mai aveva visitato prima d’allora. Con il suo addio la memoria del passato è rievocata da eventi culturali, concerti e mostre durante la Settimana Polacca organizzata ogni anno a Harbin dall'Istituto Polacco di Pechino. Un’altra eredità, sia polacca che russa, è legata alle abitudini alimentari dei residenti cinesi. Caso unico nel Paese, da molti anni gli harbiniani amano e consumano grandi quantità di pane bianco, cetrioli marinati, birra lager e caffè.
Purtroppo, negli ultimi anni innumerevoli storici edifici cittadini sono stati demoliti e rimpiazzati da grattacieli residenziali e per uffici, anche se la mobilitazione sui social di alcuni abitanti di Harbin ne ha salvati altri. Fra le perle architettoniche polacche rimaste quasi intatte vi è la residenza Art noveau di Władysław Kowalski. Sorge ancora oggi nel centro della metropoli e ospita il Museo dei leader del popolo cinese, coprendo il periodo che va da Mao Zedong (il quale trascorse una notte nel palazzo, al ritorno da una visita a Mosca), sino all'attuale presidente Xi Jinping. Anche il ponte Kierbedź, divenuto pedonale, ospita un museo, quello della Ferrovia Orientale Cinese. Accanto ad esso sorge un nuovo viadotto ferroviario, su cui ora sfrecciano i convogli passeggeri diretti a Qiqihar, ultimo scalo settentrionale della rete dell’alta velocità cinese.
La villa e il ponte restano simboli riconoscibili dell’odierna Harbin, ma non sono le uniche tracce visibili della presenza polacca in città. La chiesa di San Stanislao è stata ricostruita e viene oggi adoperata dai cattolici cinesi con il nome di Cattedrale del Sacro Cuore di Gesù, mentre la facciata della nuova stazione è modellata su quella precedente, dell'architetto Ignacy Cytowicz. Dopo decenni d’abbandono e svariati utilizzi temporanei, l’ex Grande Sinagoga è stata restaurata, divenendo una sala per concerti. Infine, il tracciato delle strade principali dell’odierna Harbin resta quello ideato dall’ingegner Konstanty Jokisz, come pure alcuni degli edifici neogotici, neoclassici e Art déco che vi si affacciano. Mancano solo i discendenti dei polacchi che li costruirono e vi abitarono, contribuendo a definire l’anima di una Harbin che non esiste più.
Per approfondire consigliamo, in inglese, un recente articolo di Culture.pl e il libro ‘A History of the Polish Consulate in Harbin’ di Andrzej Giza, che l’autore di questo longform ringrazia per l’aiuto fornito.