Polonezköy, la Polonia sul Bosforo
di Lorenzo Berardi
Il cartello stradale è trilingue e color senape. Dà il benvenuto in un paesino di collina equidistante da tre celebri specchi di acqua salata. A nord la vasta distesa del Mar Nero, a sud il catino del Mar di Marmara e a ovest la lingua sinuosa del Bosforo. Il messaggio
‘Polonezköy'e Hoşgeldiniz / Welcome to Polonezköy / Polonezköy wita Was’
accoglie gli automobilisti giunti fin quassù in cerca di aria buona, verde, tranquillità e prelibatezze esotiche. Alcuni di loro si chiederanno per un momento quale sia quella terza misteriosa lingua che appare in coda al turco e all’inglese. E subito comprenderanno che è il nome stesso della località a suggerirlo: Polonezköy, ossia ‘villaggio polacco’ nell’idioma del posto. Cosa ci faccia un simile toponimo in questo boscoso angolo della Turchia asiatica, a pochi minuti dalle ultime propaggini urbane di Istanbul è una vicenda che affonda le proprie radici nell’Ottocento e che merita di essere raccontata.
Perché di polacco Polonezköy non ha solo il nome, ma anche le origini e una parte del proprio presente. Fu il primo insediamento polacco stabilito fuori dai confini europei, precedendo di vari decenni la colonia di connazionali creata nel 1898 a Harbin, in Cina, dall’ingegner Szydłowski, impegnato nella realizzazione della Transiberiana. Il centro abitato in terra turca venne invece fondato nel 1842 con il nome di Adampol per volere del principe Adam Jerzy Czartoryski. I suoi primi abitanti furono uomini d’armi polacchi giuntivi da emigrati, dopo il fallimento dell’Insurrezione varsaviana contro gli occupanti russi del novembre 1830.
Il principe non era solo un appassionato collezionista d’arte che anni prima aveva acquistato ‘La dama con l’ermellino’ di Leonardo da Vinci, oggi esposta al Museo Czartoryski di Cracovia, ma anche un abile statista e un fervente patriota. Inviso a russi, austriaci e prussiani, che in quegli anni si erano spartiti la Polonia, il sessantenne ex capo di governo polacco venne espulso dalla madrepatria per essersi opposto ai dominatori stranieri. La sua condanna a morte non fu eseguita, tramutandosi in un dorato esilio prima a Londra e poi a Parigi, presso l'Hôtel Lambert, un lussuoso palazzo barocco affacciato sulla Senna. Nella Ville Lumière, Czartoryski maturò l’idea di creare un nuovo approdo straniero, oltre a quello francese, per la diaspora polacca intenzionata a opporsi dall’esterno agli occupanti del Paese. Scelse la Turchia, allora cuore di un Impero Ottomano ostile a Vienna, Mosca e Berlino e sostenitore – anche per propri interessi geopolitici – dell’indipendenza polacca.
Ormai ultrasettantenne, il principe acquistò i terreni sui quali sarebbe sorto il futuro villaggio dall’ordine religioso cattolico della Congregazione della missione attraverso un proprio uomo di fiducia conosciuto a Parigi e inviato sul posto, Michał Czajkowski. Costui era un nobile della szlachta di origini cosacche convinto che polacchi, ucraini e ungheresi dovessero lottare fianco a fianco per liberarsi dal giogo dei russi e dal panslavismo promosso da Mosca. Per anni Czajkowski sobillò e organizzò rivolte anti-russe nel Caucaso e in Turchia, prima di convertirsi all’Islam, assumendo il nome di Mehmet Sadik Pascià, e creare una brigata cosacco-ottomana, che prese parte alla guerra di Crimea. In questo racconto, tuttavia, il ruolo dell’eroe romantico Czajkowski è quello di intermediario nella compravendita dei 500 ettari di terreni boscosi, nonché di figura cruciale nel convincere dodici rivoluzionari polacchi a divenire i primi abitanti di un minuscolo insediamento in Turchia. Nel 1842, al loro arrivo ad Adampol, i dodici uomini vi trovarono solo alcune casupole di legno male in arnese circondate da una foresta di pini, querce e castagni.
Fra indipendenza polacca e Repubblica di Turchia
Dopo la sollevazioni popolari di Cracovia nel 1846, contro gli austriaci, e della regione della Grande Polonia nel 1848, ancora contro i russi, Czajkowski convinse alcuni connazionali a raggiungerlo in Turchia. Altri, invece, coscritti con la forza nei ranghi dell’esercito russo, vennero da lui liberati a peso d’oro e poi fatti insediare fra Istanbul e Adampol, dopo il conflitto in Crimea nel 1856. La popolazione polacca nell’attuale Turchia crebbe ancora al termine di un’altra rivolta contro gli occupanti di Mosca finita male, quella del gennaio 1863. Dopo di essa si stima che i polacchi residenti nei territori dell’Impero Ottomano fossero divenuti circa ottomila. La maggior parte di loro, tuttavia, trovò riparo nelle città di Edirne e Salonicco (quest’ultima oggi in Grecia) e non ad Adampol. Tanto è vero che nel 1876, il villaggio contava soltanto 123 anime e poco vi era cambiato, eccezion fatta per l’apertura di una scuola polacca. Per sopravvivere in questa exclave turca di una Polonia all’epoca inesistente assieme alle loro famiglie gli ex soldati e rivoluzionari si erano dovuti reinventare agricoltori, pastori, allevatori di polli o maiali, macellai e mastri caseari. L’economia del villaggio si basava quasi esclusivamente su quanto i suoi abitanti riuscivano a produrre in loco e i contatti commerciali con le comunità limitrofe erano limitati, seppur cordiali.
Agli albori del XX secolo il paesino rimase un’isola di relativa tranquillità in un periodo storico turbolento, accogliendo i primi turisti, che lo raggiungevano su carretti trainati da cavalli. Alcuni dei suoi abitanti si trasferirono in Polonia dopo la ritrovata indipendenza del Paese nel 1918. Dietro alla loro scelta di lasciare per sempre il luogo natio, vi furono anche legittime preoccupazioni sul proprio futuro. In quegli stessi anni, l’Impero Ottomano stava dissolvendosi ed era impegnato in due sanguinosi eventi bellici: la guerra greco-turca del 1919-1922 e quella turco-armena del 1920. La prima convinse centinaia di migliaia di greci stabilitisi nella penisola turca ad abbandonarla, per sfuggire a violente persecuzioni. La seconda arrivò a conclusione del genocidio perpetrato ai danni di un’altra minoranza etnica e durante il quale fra 600mila e un milione e mezzo di armeni perirono nelle regioni anatoliche. I polacchi di Adampol vennero lasciati in pace dai loro vicini turchi, ma chi anelava la terra d’origine si convinse che fosse il momento giusto per raggiungerla.
Dopo la proclamazione della Repubblica di Turchia, nel 1923, il villaggio venne ribattezzato Polonezköy e, quindici anni più tardi, i suoi abitanti madrelingua polacchi ottennero la cittadinanza turca. In questo lasso di tempo compreso fra le due guerre mondiali, nel paese vivevano circa 500 persone, in parte turche di fede musulmana e in parte di origine polacca e religione cattolica in una coabitazione che si mantenne pacifica. Nel 1929 venne pubblicato il primo libro in polacco dedicato al villaggio, ‘Adampol (Polonezkioj). Osada polska w Azji Mniejszej’ (‘Insediamento polacco in Asia Minore’), scritto da Paweł Zółkowski, un residente locale. L’anno prima, invece, l’insediamento aveva dato i natali a una bimba di padre turco e madre polacca. Con il nome Leyla Gencer sarebbe divenuta la più celebre cantante lirica turca di sempre, esibendosi come soprano nei migliori teatri italiani dove si affermò quale interprete ideale delle opere di Gaetano Donizetti, prima di spegnersi nel 2008 a Milano.
Da Nazim Hikmet a Lech Wałęsa
Un’altra gloria nazionale turca ricollegabile a Polonezköy è stato il noto poeta Nazim Hikmet. Il suo bisnonno materno, Konstanty Borzęcki, fu uno degli emigrati polacchi approdato brevemente nel villaggio in seguito all’insurrezione della Grande Polonia del 1848. Divenne un generale dell’esercito ottomano con il nome di Mustafa Celalettin Pascià, dopo essersi anch’egli convertito all’Islam, e morì pochi anni dopo in Albania, combattendo contro insorti montenegrini. Come ricorda il giornalista Witold Szabłowski ne ‘L’assassino della città delle albicocche’, fu proprio un passaggio del libro di Borzęcki ‘Les Turcs anciens et modernes’ a suggerire al padre della moderna Turchia, Mustafa Kemal Atatürk di imporre l’alfabeto latino nel Paese nel 1929. A chiudere idealmente il cerchio, il pro-nipote poeta del generale, Nazim, ottenne la cittadinanza polacca nel 1959 – utilizzando il cognome del bisnonno – dopo essere divenuto persona non grata in madrepatria per via delle sua adesione al locale partito comunista. Riottenuta la cittadinanza turca postuma nel 2009, Hikmet non è tuttavia celebrato da alcun toponimo a Polonezköy, al contrario del suo connazionale acquisito Mickiewicz, al quale il suo slancio poetico è talvolta paragonato.
Fra gli illustri personaggi che hanno fatto tappa ad Adampol-Polonezköy fra il XIX e il XXI vi sono lo stesso Atatürk, il compositore ungherese Franz Liszt, lo scrittore francese Gustave Flaubert, il futuro Papa Giovanni XXIII e tre presidenti polacchi: Lech Wałęsa, Alexander Kwaśniewski e Lech Kaczyński. La celebre guida turistica statunitense Frommer’s sostiene che anche Karol Wojtiła sia passato per Polonezköy, nel 1994, ma erroneamente. Il pontefice non vi si recò mai, ma venne accolto da una delegazione di residenti del villaggio a Istanbul, durante la sua unica visita pastorale in Turchia, nel 1979. Proprio in quegli anni Polonezköy era stato riscoperto dal turismo locale, quando i suoi abitanti avevano iniziato ad affittare camere e a convertire parti delle proprie fattorie in pensioncine.
Il successo fu immediato grazie a una serie di fattori favorevoli. Da un lato, l’idilliaca posizione del luogo consentiva agli abitanti di Istanbul di lasciarsi alle spalle l’inquinamento, il traffico e il rumore della loro caotica città. Dall’altro, siccome i proprietari delle strutture ricettive di Polonezköy non erano quasi mai di fede musulmana, consentivano anche a coppie non sposate di pernottare nella stessa stanza, in anni in cui nel resto della Turchia era quasi sempre richiesto un certificato matrimoniale per farlo. Infine, vi era il cibo che comprendeva formaggi, prelibate ciliegie e un’esotica scelta di pietanze tradizionali polacche a base di carne di maiale che molti giovani turchi laicizzati apprezzavano ed erano talvolta difficili da trovare altrove.
A partire da questo periodo, vi furono occasionali visite di cittadini polacchi, soprattutto eredi di ex abitanti del paese e figure istituzionali. Con la fine del comunismo in Polonia e l’apertura delle frontiere il turismo di ritorno verso Polonezköy si intensificò, come pure la letteratura dedicata a questo unicum nella Turchia asiatica, ma la lingua polacca – fino agli anni ’60 predominante nel villaggio – vi divenne sempre meno comune. Nel frattempo, l’apertura di un secondo attraversamento automobilistico sul Bosforo, il ponte Fatih Sultan Mehmet inaugurato nel 1988, aveva accorciato i tempi necessari per raggiungere il paese, rendendolo meno remoto. Quattro anni dopo il presidente della Repubblica, Lech Wałęsa, offrì agli eredi dei suoi connazionali del borgo la cittadinanza polacca e il 21 luglio 1994, visitandolo, dichiarò:
«Vengo da un villaggio polacco e quindi mi sento a casa in ogni villaggio. E forse ancora di più a Polonezköy, perché è così lontano da casa, eppure qui ci si sente come a casa».
Parole che non impedirono a tanti polacchi di quarta e quinta generazione nati e cresciuti nel paese di lasciarlo alla volta di Austria e Germania in cerca di migliori opportunità professionali e maggiori libertà individuali.
Via Mickiewicz, angolo moschea
Oggi Polonezköy è un insediamento a vocazione turistica con una vasta scelta di alberghi per la classe medio-alta turca e alcune seconde case immerse nel verde acquistate dai ricchi banchieri e imprenditori di Istanbul. Sonnolento per gran parte dell’anno, si ripopola negli assolati mesi estivi, pur restando lontano anni luce dal caos della tentacolare metropoli sul Bosforo, distante pochi chilometri. Circondati da uno scenario bucolico di pascoli e boschi protetti per legge dalla speculazione edilizia, vi vivono stabilmente soltanto duecento persone. Un quarto di esse discende in linea diretta dai suoi primi abitanti stranieri e sostiene di essere ancora in grado di parlare un polacco fluente.
Una delle strade principali del villaggio è intitolata al bardo nazionale polacco Adam Mickiewicz. Si spense nella vicina Istanbul (allora Costantinopoli) colpito dal colera il 26 novembre 1855, in una casetta del quartiere un tempo noto come Pera e già ex colonia genovese di Galata, sull’altra sponda del Corno d’Oro. Il medesimo edificio oggi ospita un museo dedicato al grande letterato. Mickiewicz vi era arrivato da Parigi appena due mesi prima, per aiutare Czajkowski alias Sadik Pascià a organizzare un contingente polacco all’interno dell’esercito ottomano. Questi avrebbe voluto seppellire l’amico poeta proprio nel piccolo cimitero cattolico di Polonezköy – che probabilmente Mickiewicz aveva visitato – ma l’élite dell’emigrazione polacca fra Francia e Turchia si oppose a questa umile soluzione. La salma del grande letterato venne così trasportata nei pressi di Parigi e poi in Austria, prima di essere inumata nella cattedrale del Wawel di Cracovia. Chi invece riposa nel piccolo cimitero di Polonezköy dal 1866 è Ludwika Śniadecka, moglie di Sadik Pascià e amata in gioventù dal grande poeta romantico Juliusz Słowacki. Oggi i cognomi sulle lapidi delle tombe accanto alla sua – Biskupski, Dochoda, Kępka, Krzemiński, Minakowski, Nowicki, Ohotski, Ryży, Wilkoszewski, Zółkowski – testimoniano 179 anni di ininterrotta presenza polacca nel villaggio.
All’incrocio fra via Mickiewicz e viale Beykoz si fronteggiano una semplice chiesetta intitolata alla Madonna di Częstochowa e un’altrettanto modesta moschea. Poco più in là, lungo la strada principale che attraversa il paese, ci si può imbattere in alcuni ristoranti che nei loro nomi vantano spesso termini polacchi quali karczma (locanda) e gospoda (taverna). Nei propri menù questi locali per affluenti turisti affiancano minestra di barbabietole barszcz e cotolette di maiale alle tradizionali meze turche e alla birra locale Efes Pilsen. Le famiglie in visita da Istanbul e qualche sparuto turista straniero nei mesi estivi sembrano gradire questa fusione culinaria, i memorabilia polacchi alle pareti, e i sentieri che si snodano fra le colline del primo parco naturale istituito nei dintorni dell’ex capitale bizantina e ottomana, paradiso del trekking. Attorno a loro, fra alcuni esempi posticci di edifici con elementi in legno, se ne trova un grappolo di autentici. Una delle abitazioni tipiche meglio conservate dell’originario insediamento polacco è la Casa della memoria di Zofia Ryży, che nelle sue quattro stanze ospita un museo dedicato alla storia del villaggio ricostruita fra documenti d’epoca, costumi tipici, oggetti d’un tempo e suggestive fotografie in bianco e nero.
Una tradizione relativamente recente, introdotta nel 1992 ma oggi interrotta, è il Festival delle ciliegie di Polonezköy. Fino al 2018 la sagra si svolgeva nelle prime due settimane di giugno, e oltre alla degustazione dei pregiati frutti del luogo (e del liquore prodotto da essi), diveniva anche un’occasione per rievocare alcuni elementi della storia e della cultura del paese. I discendenti degli abitanti polacchi indossavano abiti tradizionali e rispolveravano violini e fisarmoniche, dando vita a concerti e balli folkloristici. Di autentico era rimasto poco, ma ripristinare un festival così popolare aiuterebbe a preservare la memoria di un villaggio unico nel suo genere, evitando che si trasformi in un bucolico paradiso per benestanti. Un destino che il principe Adam Jerzy Czartoryski – determinato a fare del villaggio un rifugio sicuro per patrioti e rivoluzionari in esilio – non avrebbe gradito.