Most, la città ceca invisibile

Una cartolina del 1910 che mostra la Piazza del Mercato di Most, quando ancora si chiamava con il nome tedesco di Brüx. Nulla di quanto vi appare esiste oggi, a eccezione della fontana (spostata nella nuova Most).

di Lorenzo Berardi

Fra le cinquantacinque ‘Città invisibili’ immaginate da Italo Calvino nell’omonimo capolavoro pubblicato nel ‘72, undici sono definite ‘città sottili’. Le accomuna il fatto di essere incomplete, costruite su fragili ecosistemi, destinate a erodersi o ad essere abbandonate. Fra di esse, Ottavia viene descritta così:

“C'è un precipizio in mezzo a due montagne scoscese: la città è sul vuoto, legata alle due creste con funi e catene e passerelle. Si cammina sulle traversine di legno, attenti a non mettere il piede negli intervalli, o ci si aggrappa alle maglie di canapa. Sotto non c'è niente per centinaia e centinaia di metri: qualche nuvola scorre; s'intravede più in basso il fondo del burrone. Questa è la base della città: una rete che serve da passaggio e da sostegno. Tutto il resto, invece d'elevarsi sopra, sta appeso sotto: scale di corda, amache, case fatte a sacco, attaccapanni, terrazzi come navicelle, otri d'acqua, becchi del gas, girarrosti, cesti appesi a spaghi, montacarichi, docce, trapezi e anelli per i giochi, teleferiche, lampadari, vasi con piante dal fogliame pendulo. Sospesa sull'abisso, la vita degli abitanti d'Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno che più di tanto la rete non regge.”

La ceca Most, come Ottavia, è stata una città sottile. E non solo metaforicamente. A un certo punto la rete che le aveva fatto da base, da passaggio e da sostegno, facendola prosperare per nove secoli non ha retto. E la vecchia Most è sprofondata nell’abisso sottostante, divenendo invisibile. Al suo posto è stata costruita una nuova Most, accanto a quella svanita per sempre.

‘Most’ in lingua ceca (e in varie altre lingue slave) significa ‘ponte’. Nel significato stesso del suo nome si rintraccia la similitudine con l’Ottavia sospesa nel vuoto, fra due montagne scoscese, narrata da Calvino, simile appunto a un ponte. La rete di Most, la terra stessa su cui sorgeva, non è tuttavia crollata per naturale consunzione, bensì per una scelta consapevole. Una scelta dettata da motivi economici e decisa a tavolino altrove, con firme e vigorose strette di mano a suggellarla.

 

Nascita di una città sottile

Menzionata per la prima volta nel 1040 con il nome latino di Gnevin Pons (Ponte di Hněvín) in riferimento al castello di Hněvín, che sorge su un’altura adiacente, Most nasce come un villaggio raccolto attorno a una piazza del mercato, all’incrocio fra due rotte commerciali in un terreno paludoso. Presto prende il nome tedesco di Brüx e ospita una popolazione perlopiù germanofona. Danneggiata da alcuni incendi e sempre rimessa in sesto, prospera nel XVI e nel XVII secolo, mentre nel ‘700 subisce le ripercussioni economiche portate dalle Guerre di Slesia combattute fra il Sacro Romano Impero e la Prussia. Come se non bastasse, nel 1820 un ultimo, vasto, incendio torna a ferirla. 

Proprio in questo periodo avverso, arriva quello che parrebbe un colpo di fortuna: ingenti giacimenti di lignite, carbone fossile, vengono rinvenuti nei pressi della città. Qualche anno dopo, si comincia ad estrarla. Dapprima lo si fa in modo rudimentale e per consumo locale, poi nel 1870 con l’apertura della ferrovia fra Chomutov e Ústí nad Labem, il combustibile fossile estratto nei dintorni di Most può raggiungere su strada ferrata un porto fluviale sull’Elba e da lì Dresda, Amburgo e il mondo intero.

L’industria carbonifera porta ricchezza, posti di lavoro e attrae numerosi abitanti in quella cittadina di provincia. Molti di essi sono di lingua ceca. Nel giro di quarant’anni, fra il 1869 e il 1910, i residenti quasi quintuplicano, passando da 11mila a 49mila. Il fatto che nel 1895 il terreno si sgretoli sotto alcuni edifici del centro abitato, facendoli sprofondare, in una conseguenza degli scavi minerari in corso nei paraggi, non ne frena lo sviluppo. Durante la sua crescita vertiginosa, Most investe anche nella propria vita amministrativa, sociale e culturale. Uno dopo l’altro vengono edificati uno sfarzoso tribunale distrettuale, un museo cittadino, l’Hotel Záložňa, un teatro in stile Art Nouveau e creata una linea tramviaria di trasporto pubblico.

Il Tribunale distrettuale di Most (distrutto negli anni ‘70), la colonna eretta al termine della peste del 1680 e, sulla collina, il castello di Hněvín in una foto degli anni ‘50. (Museo regionale di Most)

Nel 1918 la città entra a far parte della Cecoslovacchia indipendente e nel censimento condotto tre anni dopo, il 62% dei suoi abitanti si dichiara tedesco e appena il 32% ceco. La coabitazione fra queste due anime linguistiche della città non è sempre idilliaca, ma si mantiene pacifica. Le cose cambiano quando Most passa alla Germania durante la Seconda guerra mondiale, assorbita nella regione del Reichsgau Sudetenland, annessa dopo l’invasione nazista dei Sudeti. Al termine del conflitto, i cechi possono rispondere alle angherie subite dagli occupanti, espellendo la popolazione di lingua tedesca dal loro Paese, secondo quanto deciso alla Conferenza di Potsdam. Finiscono in questo modo novecento anni di coesistenza multiculturale. Most diviene interamente ceca, con l’eccezione di una comunità Rom, che vi si stabilisce negli anni seguenti.

 

L’inizio della fine: 60 anni fa

Il 26 marzo 1964 il governo cecoslovacco riunito a Praga approva la Risoluzione 180. Dietro a questo freddo linguaggio burocratico si nasconde una decisione che pare incredibile. L’intero centro storico di Most, Starý Most, e gran parte dei suoi edifici simbolo, municipio rinascimentale, teatro e tribunale compresi, vanno demoliti per lasciare spazio all’estrazione della lignite. Neppure il cimitero e il locale birrificio fondato nel 1470 – una vera istituzione per i cechi – sono risparmiati dagli esplosivi e dalle ruspe.

A nulla servono le proteste dei residenti, degli storici, degli intellettuali. Nella Cecoslovacchia comunista dell’epoca, queste decisioni prese dall’alto non si possono ribaltare dal basso. Tanto più che l’intera operazione frutterà alle casse dello Stato quattro miliardi e mezzo di corone grazie all’estrazione e alla vendita della lignite. Una volta sottratti i costi per la demolizione della vecchia Most e la costruzione di quella nuova, gli apparatchik di Praga stimano di ricavarci un profitto netto pari a un miliardo di corone. Si sbaglieranno di grosso, ma per difetto.

Il centro storico di Most durante la sua distruzione per creare una miniera di lignite a cielo aperto in uno scatto risalente alla fine degli anni ‘60. (Museo regionale di Most)

Così, a partire dall’anno seguente, cominciano gli sfratti forzati degli abitanti di Most. Migliaia di persone vengono trasferite all’interno di appartamenti nei nuovi casermoni di edilizia popolare, noti come panelák in Cecoslovacchia e simili a quelli che verranno realizzati nel quartiere di Petržalka, a Bratislava. Nel frattempo le loro antiche case nella Starý Most iniziano ad essere demolite metodicamente, a una a una. Ci vorranno ventitre anni per completare la distruzione della città, terminata il 1° aprile 1987.

L’unico edificio che viene risparmiato è la chiesa gotica dell’Assunzione della Vergine Maria, spostata di 840 metri rispetto all’ubicazione originale nel ’75, tramite un ingegnoso sistema su rotaie. Nella sua nuova collocazione si affaccia su un panorama brullo e spettrale, cosparso di detriti e macerie, là dove un decennio prima sorgevano gli eleganti palazzi, le fontane, gli alberi, si andava a passeggio nelle piazze e scampanellavano i tram. Accanto alla chiesa vengono edificati alloggi per i minatori, in parallelepipedi tirati su in fretta e furia per ospitare la manovalanza.

La chiesa dell’Assunzione della Vergine Maria a Most, durante le operazioni del suo spostamento su rotaia nel 1975.

La cittadina dove il tempo non si è fermato

La sorte toccata a Most, città sottile e ora in parte anche invisibile, non è stata un caso unico. Nella vicina Polonia, il centro abitato di Miedzianka venne abbandonato e raso al suolo a seguito dell’estrazione prima del rame e poi dell’uranio presenti nel sottosuolo, che resero instabile la collina su cui sorgeva. Su quella vicenda, il giornalista polacco Filip Springer ha scritto un reportage di successo. Spostandoci in Scandinavia, la svedese Kiruna è l’esempio più noto di una cittadina europea demolita e ricostruita altrove di recente per espandere una miniera, in questo caso sotterranea e di minerale di ferro. A partire dal 2020, invece, ha ottenuto grande attenzione mediatica il caso del villaggio di Lützerath, in Germania, demolito fra le proteste di residenti e attivisti climatici per allargare una gigantesca miniera di carbone a cielo aperto.

Oggi Most conta circa 60mila abitanti. Ha un nuovo teatro, inizialmente intitolato ‘Ai lavoratori’ e inaugurato negli anni ‘80, un nuovo municipio in stile brutalista, un planetario, un autodromo e persino un piccolo aeroporto. Da una collina la domina la mole del castello di Hněvín, costruito troppo in alto per intralciare i filoni carboniferi. Nelle disadorne piazze della nuova Most sono stati collocati alcuni monumenti spolpati dal centro storico: qua una fontana rinascimentale, là una colonna eretta al termine della peste del 1680, altrove un gruppo scultoreo settecentesco.

Una delle piazze della nuova Most, oggi, con la medesima colonna in ricordo della peste del 1680 visibile di fronte al demolito Tribunale distrettuale nella prima foto di questo longform. (Wikipedia)

Le miniere carbonifere a cielo aperto che hanno obliterato la vecchia Most, sfruttate in maniera iperintensiva, hanno chiuso nel ‘91. Da loro, nell’arco di soli 27 anni sono state estratte 89 milioni di tonnellate di lignite, il 90% delle riserve disponibili nella zona, triplicando le stime sui profitti fatte dal governo cecoslovacco nel ‘64. A ricordare l’ingombrante eredità della lignite, sulla città nuova svetta ancora la ciminiera della centrale elettrica di Komořany che dal ‘58 continua a bruciare questo combustibile fossile per produrre energia.

Per tentare di rimediare all’efferata distruzione di uno dei centri abitati più belli del Paese, nel 2008 l’area dove sorgeva Starý Most, divenuta una terra di nessuno per quasi due decenni a seguito della chiusura della miniera, è stata colmata da un bacino artificiale, il lago Most. Oggi ci si va in barca a vela, mentre un parco circonda la chiesa gotica unica superstite, per quanto sfrattata, del centro storico raso al suolo. Qualcuno dei gitanti che vi si recano nelle giornate di sole forse ignora che proprio qui, in nome di una breve adorazione del dio carbone, è stata resa invisibile una città dai nove secoli di storia.  

L’ex Starý Most come appare oggi, con la chiesa superstite traslocata su rotaia, affiancata dagli alloggi per minatori anni ‘60 e circondata da un parco creato di recente. (Wikipedia)

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