Figli della Slesia ribelle
di Salvatore Greco
Nel dicembre del 2018, il mondo ha scoperto Katowice.
Chi non ci vive, e chi non si occupa di Polonia o Europa centrale, difficilmente avrà mai avuto a che fare con questa città, capoluogo della Slesia polacca. Fino al dicembre del 2018, appunto. Quando sono accorsi qui, a fare compagnia a circa 300mila residenti, i ministri dell’Ambiente dei Paesi che nel 1992 hanno firmato la convenzione di Rio de Janeiro sul clima. Il motivo era la 24esima edizione del Cop, il programma dell’Onu sul clima, e la scelta di Katowice era particolarmente simbolica. Perché da queste parti d’Europa si guarda con freddezza alle proposte di trasformazione ecologica del settore energetico.
La freddezza attribuita a Katowice e alla Slesia deriva dalla vocazione economica di questa regione, fatta ancora prevalentemente di miniere di carbone e di impianti di trasformazione dello stesso. Tre quarti del fabbisogno energetico polacco vengono soddisfatti dal carbone, che è in buona parte slesiano. La riconversione sostenibile in questa regione non sarà solo una sfida ecologica, ma anche occupazionale e sociale. La Slesia dovrà fare i conti con una trasformazione radicale della sua identità e del suo tessuto produttivo. O forse no. Allo stato attuale, il partito di maggioranza che governa la Polonia, Diritto e Giustizia (PiS), continua a ritardare e smussare l’entità di questi cambiamenti.
Alle ultime elezioni politiche nel 2019, PiS ha ottenuto la maggioranza relativa in tutti e sei i collegi elettorali in cui è diviso il voivodato della Slesia con il 42% dei consensi su scala regionale. Un risultato in linea con quello nazionale ma che, sommato alle notizie arrivate da Katowice pochi mesi prima, ha legato a doppio filo l’immagine della Slesia a quella di un conservatorismo retrivo e anti-ecologico.
Eppure, la storia di questa regione è stata compartecipe di quella del movimento operaio internazionale nel suo momento di massimo splendore. Minatori e operai slesiani hanno contribuito alla resa delle forze austro-ungariche sul fronte russo nel 1917. Altri minatori e operai slesiani hanno imbracciato le armi al fianco di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht nella rivoluzione spartachista. Altri ancora, due decenni dopo, sono partiti per la Spagna come volontari delle Brigate internazionali per combattere contro i golpisti guidati da Francisco Franco e supportati dalle forze dell’Italia fascista e della Germania nazista.
Erano socialisti, comunisti, anarchici, patrioti polacchi e indipendentisti slesiani. In conflitto su molti temi, ma uniti da un senso anche vago di idea progressista, di solidarietà e comunanza. Sarebbero probabilmente delusi di vedere la loro terra associata a valori conservatori e reazionari. Loro che conservatori non lo sono mai stati, per necessità, vocazione o perché non era possibile immaginare altrimenti sé stessi.
Per capire meglio il quadro di quanto riportiamo, è importante dare delle coordinate più precise. La regione storica della Slesia è uno spazio molto più grande dell’attuale voivodato che ne prende il nome. Si estende in altri due voivodati polacchi, quello della Bassa Slesia e quello di Opole, e penetra nei confini di Repubblica Ceca e Germania.
La nostra storia si svolge prevalentemente in Alta Slesia, oggi quasi esclusivamente incorporata nei confini della Polonia, eccezione fatta per alcune singole città che si trovano invece in Repubblica Ceca.
Il momento in cui l’Alta Slesia diventa una regione ad alto potenziale rivoluzionario risale alla fine del XIX secolo, in piena terza rivoluzione industriale. In questo periodo, da queste parti la gente vive pressoché esclusivamente di attività mineraria. E vive male. Le paghe sono basse, le ore di lavoro sono tantissime, le condizioni di vita sono drammatiche e il tasso di mortalità è particolarmente alto. Eppure, la prospettiva di uno stipendio misero ma fisso, rispetto all’imprevedibilità dei raccolti, attrae famiglie di futuri minatori e operai nei villaggi costruiti apposta per loro.
I padroni del vapore, o del carbone vista la situazione, sono esclusivamente imprenditori di lingua tedesca, sudditi di due Kaiser: l’asburgico Franz Josef d’Austria-Ungheria e il prussiano Wilhelm II della Germania da poco unificata. Sono i loro due imperi a dividersi l’Alta Slesia, quando ancora la Polonia non esiste se non nei desideri di una sparuta élite continuamente scottata da insurrezioni finite male.
Le braccia dei lavoratori al soldo del capitale austro-prussiano appartengono a varie nazionalità, con proporzioni difficili da stabilire. Nei vari censimenti banditi da Berlino e Vienna, la popolazione locale dichiara in varie quote di sentirsi polacca, ceca o slesiana. Un’appartenenza nazionale, o soprattutto linguistica. Sicuramente tra i minatori si poteva sentire parlare tanto polacco, quanto ceco e slesiano.
A prescindere dalla lingua in cui vengono scritti, ciclostilati e declamati, nelle due parti della Slesia arrivano presto materiali propagandistici dei movimenti politici socialdemocratici che sono nati di recente in Europa. Fanno breccia soprattutto nella parte asburgica dell’Alta Slesia dove nascono sezioni regionali dei partiti, si svolgono comizi e manifestazioni. I lavoratori si uniscono sotto lo slogan “la fame è solo una, uguale per tutti”, mettendo da parte differenze nazionali che ancora non sono così evidenti. Ci sono due nemici chiari all’orizzonte: i proprietari delle fabbriche e delle miniere ovviamente, ma anche il clero cattolico che, nel nome della pace sociale e della morale cristiana, biasima lo stile di vita operaio e scoraggia le sirene socialiste, allontanandosi le simpatie già scarse dei minatori.
Le cose vanno più lentamente nell’Alta Slesia prussiana. Il governo Bismarck ha formalmente garantito lo stato di diritto ai sudditi del Reich, ma l’espansione in Slesia del partito socialdemocratico tedesco, la Spd, viene particolarmente scoraggiata. I gestori di ristoranti e taverne che mettono i propri locali a disposizione delle riunioni degli operai si vedono presto recapitare ordini di chiusura immediata direttamente da Berlino.
In questo clima, con molto per cui lottare e poche armi per farlo, il movimento socialdemocratico slesiano si sfalda un po’. Parte della responsabilità arriva dall’ingresso in campo delle forze nazionaliste e patriottiche che tendono a spostare la lotta dal piano della classe a quello della nazione. Il discorso politico si semplifica, mette operai polacchi contro padroni tedeschi, e la Chiesa cattolica stavolta ha meno da ridire. Restano fuori i minatori cechi, gli slesiani che non si sentono attratti dalle sirene polacche e persino quelli tedeschi, che in comune con i padroni hanno solo la lingua in cui si esprimono. Tuttavia non è possibile immaginare uno scenario diverso. Arriva con prepotenza il XX secolo, e con esso l’eco e poi i tamburi della Prima guerra mondiale. La rivoluzione può attendere.
Com’è ovvio che sia, il conflitto accende le frizioni nazionali lenendo quelle di classe, e in generale raffredda i movimenti rivoluzionari. Molti degli operai e minatori slesiani vanno al fronte. I sudditi austriaci riempiono le trincee contro i soldati russi, mentre i sudditi prussiani finiscono sul famigerato fronte occidentale nella logorante guerra per invadere la Francia. Fatto sta che le fabbriche e le miniere si svuotano degli uomini partiti per il fronte e si riempiono di nuove leve, in particolare donne, bambini e prigionieri di guerra. I ritmi che il conflitto impone all’industria sono martellanti, presto diventano insostenibili. In tutte le città della Slesia in breve esplodono scioperi, manifestazioni e rivolte. Anche perché le notizie che arrivano dal fronte sono impressionanti. Gli imperi centrali stanno perdendo la guerra e soprattutto, nel 1917, corrono le lettere che informano dell’evento più inaspettato del mondo: in Russia lo zar è caduto, la rivoluzione socialista sta prendendo il potere. Per molti dei minatori slesiani, si tratta di notizie inebrianti.
Il vecchio mondo dei padroni si sta sfasciando, gli imperi sono al collasso, per gli operai sembra arrivato il momento di fare qualcosa. E lo fanno. Mentre sul quasi ormai ex fronte russo le truppe austriache solidarizzano con il nemico, in Slesia continuano le rivolte, gli scioperi e le manifestazioni. Gruppi di minatori e operai occupano le fabbriche e le miniere, ne prendono il controllo, organizzano assemblee che chiamano consigli. Proprio come, migliaia di chilometri più a est, hanno da poco fatto i russi. Sono i soviet.
La situazione di incertezza è destinata a durare. Mentre in Slesia la produzione si auto-organizza e i movimenti politici si radicalizzano, la grande politica mette le basi per la pace. L’Austria-Ungheria è sparita dalle carte, e così l’Impero di Germania trasformato in una mite e caotica repubblica. Sono nati nel frattempo Paesi oggi a noi familiari: l’Ungheria, la Cecoslovacchia, la Polonia. La situazione dell’Alta Slesia in questo contesto si fa cruciale.
La Slesia austriaca, infatti, viene abbastanza pacificamente divisa tra le neonate Polonia e Cecoslovacchia. Quella tedesca invece è al centro di una delle battaglie geopolitiche più importanti del primo dopoguerra.
Nel 1919, a Versailles le potenze vincitrici chiederanno alla Germania di cedere l’Alta Slesia alla Polonia. I diplomatici tedeschi, usando come leva la minaccia di non pagare i debiti di guerra, otterranno un compromesso: che sia la popolazione della Slesia a decidere da che parte stare, con un plebiscito.
Quando ancora del plebiscito non si sa niente, però, le male assemblate istituzioni tedesche devono fare i conti con un pericolo più grande che perdere una regione: la rivoluzione bolscevica. C’è una repubblica sovietica in Russia, un’altra in Ungheria, ci sono rivoluzioni in corso a Berlino, Vienna, Monaco e naturalmente anche in Slesia dove la tensione è alle stelle.
Il 20 giugno del 1918, in un ristorante di Bytom, vicino a Katowice, viene fondato ufficialmente il Partito Comunista dell’Alta Slesia che si dichiara ispirato allo Spartakusbund, il gruppo radicale fondato da Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, appena usciti di prigione. Gli spartachisti alto slesiani precedono di pochi mesi la fondazione del partito comunista tedesco, nel quale confluiranno come organizzazione regionale sottoposta. Intanto però si preparano alla lotta.
Esplodono scioperi e manifestazioni sempre più partecipate, la polizia tedesca conta almeno 25.000 iscritti al partito comunista e chissà quanti simpatizzanti. Nel disastroso quadro post-bellico gli operai hanno fame, chiedono aumenti, forniture e il controllo delle fabbriche. Nonostante lo stato tedesco sia debole in quel momento, gode di due alleati. Uno lo è a tutti gli effetti, sono i volontari anticomunisti dei Freikorps, che combattono in tutta la Germania contro gli spartachisti per spegnere la rivoluzione. L’altro alleato è più involontario ed è la composizione sociale e nazionale della Slesia. Insinuando che le richieste dei rivoltosi siano solo un pretesto per unirsi alla Polonia, la polizia di Katowice e dintorni scoraggia in parte gli operai tedeschi a partecipare. Il resto lo fa la lotta di influenze tra il partito comunista tedesco, i socialdemocratici al governo a Berlino e anche il Partito socialista polacco (Pps) che tira acqua anche alla causa nazionale.
La fine di questa parte della storia è nota. I Freikorps in tutta la Germania reprimono nel sangue la rivoluzione spartachista. Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht vengono assassinati, e con loro molti altri dei quadri dirigenti rivoluzionari. La lega di Spartaco non esiste più. Il movimento operaio si sfascia anche in Slesia, dove infine le energie si accumulano tutte sull’obiettivo finale: il plebiscito.
Nell’Alta Slesia pacificata, e pattugliata da forze alleate francesi, britanniche e persino italiane, si prepara il voto, con i due comitati nazionali tedesco e polacco a fare propaganda in un clima ancora duro e violento. L’apertura delle urne è prevista per il 20 marzo 1921, ed è preceduta da due insurrezioni armate da parte della popolazione polacca della Slesia, fallite entrambe. Ne arriverà una terza, più lunga, a risultato ormai acquisito. Quasi il 60% della popolazione interpellata ha scelto la Germania. L’effetto della terza insurrezione slesiana, una vera e propria guerra in realtà, sarà la riconquista da parte polacca di una parte della regione contesa con il plebiscito. Dal 1921, una parte di Alta Slesia è regione polacca a tutti gli effetti. Lo resterà solo per 18 anni, fino al settembre del 1939 con l’invasione nazista della Polonia. Ma questa è un’altra storia.
La regione dell’Alta Slesia, assieme alla Bassa Slesia, la cui appartenenza alla Germania non era mai stata messa in discussione, tornerà nella nuova Polonia a seguito delle decisioni prese a Yalta da Roosevelt, Churchill e Stalin.
Cosa è rimasto delle energie rivoluzionarie degli operai slesiani? Quelli che hanno preferito restare all’interno della lotta di classe, interessandosi poco o nulla alla causa nazionale, hanno reagito con sentimenti contrastanti alla guerra polacco-sovietica del 1920, finita con la sconfitta delle truppe sovietiche e con la fine del sogno di rivoluzione permanente cullato da Lev Trockij. Non erano pochi gli slesiani che, ancora dopo la fine della rivoluzione spartachista, immaginavano un mondo diverso da quello prospettato da Versailles, con una Polonia socialista e sovietica, e magari una Slesia culturalmente indipendente e sovietica anch’essa. La storia, da molte parti, ha aperto la strada ad altri piani.
Alcuni dei rivoluzionari slesiani rimasti fedeli alla causa, come accennato all’inizio, hanno imbracciato le armi in Spagna nel 1936, in difesa della repubblica contro il colpo di stato reazionario di Francisco Franco. Per l’ultima volta prima della nascita di un mondo completamente nuovo, hanno combattuto inseguendo un ideale che a loro in patria era sfuggito ma che evidentemente ritenevano più nobile del proprio interesse locale.
Nel racconto di oggi che si fa della Slesia, come di una regione pigra, provinciale e conservatrice, forse vale la pena ricordare la sua storia. Per ottenere una prospettiva non così schiacciata sull’attualità, e rendere giustizia ai figli della Slesia ribelle.