Un eroe polacco-americano
di Salvatore Greco
12 settembre 1779. Quarantadue navi della marina reale francese si avvicinano alla costa dove l’Oceano Atlantico si confonde con il fiume Winnington. Il tempo di effettuare le manovre di rito e numerosi soldati scendono a terra numerosi soldati iniziando a sbarcare i cannoni. Per ultimo arriva a terra il generale conte Charles Henri d’Estaing, che ha dirottato la sua flotta qui dopo aver sbaragliato gli inglesi a Grenada. È in corso la guerra d’indipendenza americana, l’esercito francese è arrivato in sostegno di quello delle colonie ribelli contro il dominio britannico, e quello che sta per iniziare è l’assedio di Savannah.
I francesi non hanno fretta. Si prendono tutto il tempo necessario per puntare i cannoni sulla città, poi D’Estaing manda alla città le sue condizioni: arrendetevi, o fra ventiquattr’ore iniziamo a sparare. È sicuro di avere la città nel sacco. Ha chiuso l’accesso al mare e da Charleston, a nord, è in arrivo un esercito di terra guidato dal generale Benjamin Lincoln. In realtà i franco-americani hanno commesso un grave errore strategico: uno dei fiumi che sbocca sull’Atlantico non è coperto da nessuno, da lì i britannici possono portare rinforzi a Savannah. A Savannah lo sanno, e quando scade l’ultimatum, fanno sapere ai francesi che alla resa preferiscono la guerra.
Inizia l’assedio di Savannah, che durerà un mese e un giorno. La città viene messa a dura prova, ma resiste. Dopo trentadue giorni, francesi e ribelli sono costretti a togliere l’assedio.
Ai soldati di Lincoln che tornano verso Charleston, mancano circa mille uomini tra morti, dispersi e feriti. Tra loro, un ufficiale di cavalleria, amico personale di George Washington, seppellito in fretta e furia lungo le piantagioni di canne da zucchero fuori città prima di battere in ritirata. Non è un ribelle americano, bensì un nobile cattolico polacco. Il suo nome è Kazimierz Pułaski.
Cosa ci facesse un nobile polacco d’alto rango tra gli ufficiali americani nella rivoluzione americana è una storia che merita di essere raccontata dall’inizio.
Nell’Europa del XIX secolo, innanzitutto, la Polonia era vicina alla sparizione dalle carte geografiche, status che sarebbe durato fino alla Prima guerra mondiale. All’epoca dei fatti, lo Stato polacco stava vivendo una lenta e marcescente decadenza, frutto di tutto quello che per due secoli l’aveva invece resa grande. Dal Cinquecento infatti, il regno di Polonia si era unito al Granducato di Lituania in una confederazione nobiliare simile all’oligarchia veneziana. Il re elettivo di questa Res Publica aveva potere su un territorio enorme, che comprendeva anche le attuali Bielorussia e Ucraina occidentale, e gestiva una potenza di primo livello nell’Europa del Rinascimento.
Gli storici polacchi si accapigliano da decenni sui motivi della decadenza della Res Publica nel Settecento, ma sono più o meno tutti concordi sul fatto che il potere di veto della nobiltà e la debolezza della corona siano stati fatali in quel periodo storico in cui altrove in Europa fioriva l’assolutismo.
Quando Kazimierz Pułaski viene al mondo nel 1745, nasce in una famiglia nobiliare che lo alleva nei valori del cattolicesimo della controriforma e nella fierezza che essere nobile in Polonia voleva dire libertà e peso politico. Così il giovane Kazimierz si prepara al suo ruolo di nobile come fu quello di suo padre. I possedimenti di famiglia sono perlopiù in Podolia, attualmente una regione divisa tra Ucraina e Moldova, e là il giovane Kazimierz può vedere le prime crepe del sistema polacco.
Con un re che deve essere eletto con l’accordo di tutti i nobili della Confederazione, non è difficile per una potenza straniera volitiva intromettersi nell’elezione. Alla guida della Russia in quegli anni, c’è Caterina II che trama e ottiene che al trono polacco salga un suo protetto, il principe Stanislao Augusto Poniatowski, nel 1764.
Che Stanislao Augusto sia manovrato dai russi diventa presto chiaro. Il nuovo re concede presto che guarnigioni russe si installino nelle città di confine e infine, il 24 febbraio del 1768 firma con Caterina un Trattato di eterna amicizia con il quale concede che la Confederazione diventi de facto un protettorato russo, sotto la pallida promessa da parte della zarina di mantenerne l’indipendenza de facto.
Il giorno dopo, Pułaski e altre famiglie nobili lasciano Varsavia. Cavalcano verso sud, diretti alla fortezza di Bar, oggi in territorio ucraino, dove firmano un trattato che prenderà il nome di Confederazione di Bar. Come nobili polacchi di fede cattolica, si impegnano a difendere la propria libertà politica e la propria fede dalle ingerenze straniere, combattere i russi e deporre il re traditore.
Nonostante i toni messianici del documento, la confederazione non è destinata a restare lettera morta. I nobili di Bar mettono presto insieme un esercito e iniziano a combattere contro le guarnigioni russe di stanza in Polonia. Pułaski si mette subito in vista: più di una volta sbaraglia eserciti nemici in campo aperto dimostrando abilità di manovra, esorta i villaggi a insorgere, sfida a viso aperto la Russia.
Tre anni di iniziative di guerra isolate non portano però a grandi risultati. Anzi, Caterina ha trovato alleati potenti pronti a spartirsi la morente Polonia-Lituania. Così nel 1771, i cospiratori di Bar si convincono che l’unico modo per ottenere qualcosa sia rapire il re e mettere sul trono un uomo a loro più vicino.
La situazione è molto delicata, toccherà entrare a Varsavia in armi e, per farlo, bisognerà superare le guarnigioni austriache che hanno preso il controllo delle regioni meridionali. Il compito di guidare un battaglione sulla capitale per catturare il re viene dato a Pułaski, che tra tutti i cospiratori è il generale migliore. Si rivela però non essere altrettanto bravo come politico. Piccoli screzi tra i nobili creano spifferi, e gli spifferi invidie. Quando il 20 ottobre del 1771 Pułaski guida la sua cavalleria da sud verso Varsavia, si trova di fronte le legioni che a un altro cospiratore sarebbe toccato distrarre. Preso di sorpresa, Pułaski perde e viene catturato. Per la Confederazione di Bar è la fine, per lui è l’inizio dell’esilio.
Visto che i piani di catturare il re sono stati svelati, sulla testa di Pułaski pende un’accusa di tentato regicidio. Non esattamente un biglietto da visita eccezionale per cercare asilo nell’Europa dell’assolutismo. Non potendo, per ovvi motivi, cercare accoglienza nei regni alleati della Russia, si reca prima in Francia e poi persino nell’impero ottomano, ma negli ambienti diplomatici e nobiliari lo conoscono tutti ormai. Sebbene lo avvolga un alone di stima e rispetto, è un personaggio troppo scomodo per dargli asilo politico. A maggior ragione, quando dalla Polonia arriva per lui una condanna a morte in contumacia per alto tradimento alla corona.
Non avendo scelta, Pułaski torna a Parigi in semi-clandestinità. Non gli è garantito nessun asilo ufficiale, ma è pur sempre un nobile di antica famiglia e la sua fama lo precede, specie nei circoli illuministi e proto-liberali della capitale francese.
In un salotto parigino, fa la conoscenza del generale La Fayette, all’epoca giovane ufficiale francese infatuato per la rivoluzione americana. È lui a metterlo in contatto con il celebre inventore e patriota americano Benjamin Franklin che a sua volta sembra si sia speso direttamente con George Washington per convincerlo del contributo che Pułaski avrebbe potuto dare alla causa americana.
Non ci sono evidenze di questa corrispondenza tra Franklin e Washington su Pułaski. Fatto sta che nel 1777, il conte polacco in esilio clandestino Kazimierz Pułaski, come lo stesso La Fayette, abbandona l’Europa e approda nella terra più sensibile di tutte alle parole di libertà: l’America.
L’archivio di Stato americano conserva numerose lettere tra Washington e Pułaski. Si tratta perlopiù di corrispondenza di campo, fredde indicazioni militari, richieste di rifornimenti, comunicazioni di avvenuti spostamenti. Si può percepire tuttavia tra i due una certa familiarità che lascia immaginare come Washington trattasse Pułaski con grande rispetto e fiducia. Quello che è certo, è che il padre dei futuri Stati Uniti d’America assegna a Pułaski il grado di generale di brigata e, dopo la battaglia di Brandywine dove il polacco si distingue particolarmente, quello di generale di cavalleria.
Così, nel 1778, l’esercito americano ha un reparto di cavalleria leggera che prende il nome di Pulaski’s Legion e che il nostro guida alla carica nella battaglia di Charleston del 1779. È un’importante vittoria con la quale i ribelli conquistano il primo dei due porti del sud in cui si erano asserragliati gli inglesi. Il secondo è quello di Savannah, e sappiamo com’è finita. Alla fine della guerra d’indipendenza, Pułaski è un eroe americano.
Dal 1986, l’Illinois, Stato americano dove vive la più grande comunità polacca all’estero, ha istituito il Casimir Pulaski Day che si tiene ogni anno il primo lunedì di marzo nella prossimità dell’anniversario della nascita del nostro. Piccola curiosità: nel suo concept album del 2005 ‘Illinois’ e dedicato a storie e ricordi legati a quello Stato, il cantautore Sufjan Stevens ha inserito una malinconica ballata dal titolo ‘Casimir Pulaski Day’. Di Pułaski non c’è la minima menzione, ma è interessante vedere quanto la ricorrenza sia facilmente riconoscibile, almeno a Chicago, dove una delle arterie principali cittadine è proprio la Casimir Pulaski Memorial Road.
Facendo una ricerca sui cataloghi bibliotecari online statunitensi, ci si imbatte in un numero consistente di pubblicazioni divulgative dedicate a Pułaski e mosse dal nobile obiettivo di spiegare ai bambini dell’Illinois per quale motivo a marzo possono godere di un giorno di vacanza in più.
E in Polonia? Le pubblicazioni sono sorprendentemente poche, se messe in confronto con l’altro grande patriota dell’epoca, Tadeusz Kościuszko, che gode di una bibliografia piuttosto robusta. Esiste in compenso un museo Pułaski a Warka, in un’antica residenza estiva della famiglia fuori Varsavia, e una fondazione a suo nome specializzata in war studies.
C’è una storia relativamente laterale su Pułaski e che è diventata oggetto di interesse negli ultimi vent’anni, quella della sua identità sessuale. Nessuna fonte diretta farebbe credere qualcosa di differente dal fatto che Kazimierz Pułaski fosse un uomo: il nome con cui fu battezzato, la sua educazione, il suo ruolo sociale, la sua carriera militare e anche i suoi ritratti sono elementi inequivocabili della sua identità maschile. A suscitare il dubbio sono stati degli studi recenti fatti sui suoi resti, dissepolti a Savannah negli anni Novanta del XX secolo. Lo scheletro ritrovato nella tomba con il suo nome infatti è stato rilevato dagli antropologi come indubbiamente femminile, come reso evidente dalle ossa pelviche e dalla conformazione del cranio. Allo stesso tempo, era quasi impossibile che appartenesse a qualcun altro, tanti elementi corrispondevano a quelli conosciuti di Pułaski: l’età, l’altezza, i segni di una ferita sul braccio, le gambe inarcate tipiche di chi passava molto tempo a cavallo.
Analisi più recenti, fatte sul dna ritrovato a Savannah con quello di una donna della famiglia Pułaski deceduta nel XIX secolo, hanno confermato che lo scheletro ritrovato fosse proprio quello dell’ufficiale polacco. È dunque ormai pressoché certo che Kazimierz Pułaski fosse un intersessuale, ovvero un individuo i cui tratti sessuali non sono definibili del tutto maschili o femminili.
Virginia Hutton Eastbrook, antropologa della Georgia Southern University coinvolta nello studio dei resti di Pułaski, ha dichiarato che probabilmente né il diretto interessato né chi gli è stato vicino potrebbero essersene mai accorti e che le modalità in cui questo fenomeno si presenta può variare radicalmente da un individuo all’altro.
L’intersessualità, ormai dimostrata, di Pułaski di certo nulla toglie e nulla aggiunge al suo valore e alle sue azioni. Può invece essere uno stimolo importante per scoperchiare il tabù su un fenomeno che, secondo le stime, riguarda almeno l’1,7 per cento della popolazione.
Come afferma la dottoressa Eastbrook, Pułaski è il rappresentante di un gruppo poco considerato e conosciuto, e che invece era lì e dimostra che «gli intersessuali c’erano e anche loro possono essere parte della Storia».