Per la nostra e la vostra libertà
di Matteo Tacconi
Da tanti anni frequento Ancona, per motivi di amicizia e lavoro. Mi sono affezionato a questa città. Da altrettanti anni scrivo di Polonia, e ho un debole per questo Paese. Ancona fu liberata nel 1944 dai soldati del Secondo corpo d’armata polacco. Mi sono inevitabilmente incuriosito per questa storia, che tiene insieme due luoghi a me cari. Ho letto un po’ di libri, ho preso parte ad alcune commemorazioni e ho conosciuto figli di quei soldati. Nel 2011 intervistai nel capoluogo marchigiano (e poi anche via Skype) un reduce, Wojciech Narębski. Classe 1925, è uno degli animatori delle memorie polacche in Italia. Sentii anche uno storico locale, Giuseppe Campana, che diede un contributo importante alla conoscenza delle gesta dei polacchi nelle Marche e mi aiutò a ricostruire il contesto storico in cui si mosse il Secondo corpo d’armata. Da quei colloqui nacquero due articoli per il quotidiano “Europa”, per cui lavoravo. Li ho ripresi in mano usandoli come traccia per riscrivere questa storia a quasi dieci anni di distanza.
***
Nell’inverno a cavallo tra il 1943 e il 1944, lungo la rotta marittima che congiunge i porti egiziani di Alessandria e Port Said ai moli di Taranto, il Mediterraneo allo Ionio, ci fu un incessante viavai di navi militari. A bordo c’erano soldati polacchi. Erano i membri del Secondo corpo d’armata, guidato dal generale Władysław Anders. Cinquantatremila militari, più i mezzi corazzati, i pezzi d’artiglieria e i veicoli al loro seguito.
Combatterono in Italia, contribuendo alla sua liberazione. Furono loro a sfondare le linee tedesche a Montecassino nel maggio 1944, in una delle più violente battaglie della campagna d’Italia. E furono loro a liberare la città di Ancona, nell’estate di quello stesso anno. E poi le operazioni sulla Linea Gotica, e la liberazione di Bologna. I polacchi erano alla testa del corteo che entrò nella città emiliana il 21 aprile 1945. Quattro giorni dopo il nazifascismo capitolò definitivamente, e l’Italia tornò libera.
Per la nostra e la vostra libertà: questo era il motto dei soldati di Anders. Si sentivano pienamente parte del movimento di liberazione europeo e speravano di poter tornare a guerra finita in una Polonia indipendente e sovrana. Auspicio frustrato da Yalta.
Erano sopravvissuti ai gulag di Stalin, i soldati di Anders. Vi furono rinchiusi dopo il 17 settembre del 1939, il giorno in cui l’Armata Rossa entrò in Polonia da est. Un’azione fissata dal protocollo segreto del Patto Ribbentrop-Molotov; un’invasione a tenaglia per dividere e annullare ancora una volta la Polonia, rinata solo nel 1918 come Stato sovrano. Il Settecento e l’Ottocento furono i secoli delle spartizioni austro-russo-prussiane, che un po’ alla volta cancellarono il Paese dalla mappa geografica.
Nel 1939 i sovietici occuparono le aree orientali della Polonia, mai più restituite. Corrispondono, oggi, a fasce di Lituania, Bielorussia e Ucraina. L’offensiva non fu solo per la terra. Mosca voleva annichilire anche moralmente la Polonia. Venti anni prima, risorta al termine del primo conflitto mondiale, Varsavia aveva inferto a Mosca una cocente sconfitta in una turbolenta guerra di frontiera, combattuta per quella stessa striscia di terra.
Tantissimi polacchi, nel 1939, furono catturati e deportati. E anche uccisi. Il massacro di più di ventimila tra ufficiali delle forze armate e membri dell’intellighenzia, avvenuto a Katyn nel 1940, è una pagina nera del Novecento. E una prova di ciò che a Mosca si progettava per la Polonia.
Chi non perì a Katyn fu incarcerato o rinchiuso nei gulag. Un mondo a parte di Gustaw Herling, un soldato di Anders che sarebbe poi divenuto scrittore e avrebbe vissuto in Italia, a Napoli, racconta nero su bianco quell’esperienza al limite. Wojciech Narębski, classe 1925, mi confermò nell’intervista del 2001 quanto la vita nei gulag fosse misera. «I sovietici mi arrestarono a Vilnius, l’attuale capitale lituana, allora parte della Polonia, dove vivevo. Avevo 16 anni e frequentavo l’ultimo anno di ginnasio. Fui mandato al carcere di Gorkij, l’odierna Niznij Novgorod, e poi trasferito in un sovkoz della provincia di Kirov. Le condizioni erano terribili. Bevevamo acqua, mangiavamo carote, pativamo il freddo».
La situazione per i polacchi cambiò nel 1941, quando l’Unione Sovietica, aggredita dalla Germania nazista, li liberò su pressioni del Regno Unito. Un accordo tra Mosca e Londra, che in quegli anni accoglieva il governo polacco in esilio, stabilì che l’esercito di Anders sarebbe stato addestrato nell’Urss e impiegato nella comune lotta contro il Terzo Reich. Lo avrebbero formato i soldati rinchiusi nei campi di lavoro, oltre ai civili che si sarebbero arruolati come volontari. «Nella fattoria collettiva c’erano due sottufficiali che mi consigliarono di arruolarmi nell’armata di Anders, perché altrimenti sarei morto di fame. E lo feci», ricorda Narębski.
La preparazione alla guerra, iniziata nella regione del Volga e proseguita in Asia Centrale, non fu affatto facile. C’era carenza di cibo, c’era una chimica introvabile tra ex invasori e invasi, e c’era un disaccordo chiaro sui piani futuri. I sovietici volevano mandare Anders e i suoi uomini al fronte, quanto prima. Il generale, che era stato liberato dal carcere della Lubyanka a Mosca, si opponeva fermamente. Voleva impiegare i reparti solo nel momento in cui sarebbero stati effettivamente pronti. Le privazioni subite durante i due anni di prigionia, del resto, ne avevano minato profondamente il morale e il fisico. Il generale denunciò inoltre il mancato afflusso nel Corpo d’armata di migliaia di ufficiali, ottenendo in cambio un silenzio assordante. Quei militari erano morti a Katyn.
Il massacro fu l’episodio che provocò la rottura dei rapporti tra Mosca e il governo polacco in esilio e che, prima ancora del gelo diplomatico, che risale al ‘43, indusse Stalin «a lasciare che l’esercito di Anders, ritenuto non addomesticabile, venisse spostato in Persia e addestrato dai britannici, opzione per la quale lo stesso generale aveva spinto», mi aveva spiegato nel 2001 Giuseppe Campana, ricercatore dell’Istituto storia Marche Novecento che ha realizzato vari studi sui soldati di Anders, e che è venuto a mancare nel 2015. C’era anche un Primo corpo d’armata, fatto da soldati scappati dopo la sconfitta patita per mano del Terzo Reich nel ‘39. Fu impiegato sul fronte francese. Il trasferimento dei polacchi dall’Asia Centrale alla Persia (l’odierno Iran), dal comando sovietico a quello britannico, fu organizzato in due fasi, e terminò nell’agosto 1942. Fu solo l’inizio di un lungo viaggio. Dalla Persia i polacchi si sarebbero spostati in Iraq e poi in Palestina, fino all’Egitto, da cui sarebbero salpati per l’Italia, finalmente pronti per combattere.
Il Secondo corpo d’armata polacco era più di un esercito. Era una Polonia itinerante. Ovunque si spostasse venivano aperte scuole e promosse attività culturali. Al seguito dei soldati c’erano le loro famiglie. Si visse e si pensò alla polacca, coltivando la speranza di tornare a casa una volta cessate le ostilità. Il legame con la propria terra si mantenne forte lungo ogni tappa del tragitto. E con uomini, donne e bambini marciava anche il celebre orso-soldato Wojtek, una mascotte per Anders e i suoi.
La decisione di costituire un Corpo d’armata, unendo vari reparti presenti in Medio Oriente nel 1942-1943, fu presa dal capo delle forze armate e del governo in esilio a Londra, il generale Władysław Sikorski. L’incidente aereo in cui morì avvenne mentre stava tornando a Londra da un’ispezione alle truppe in Iraq. Il velivolo a bordo del quale viaggiava fece uno scalo a Gibilterra, e poi precipitò. Quell’episodio, insieme alla scoperta delle fosse di Katyn, avvenuta poco prima, scosse profondamente i soldati, ma non scalfì la loro voglia di combattere per gli Alleati e per la Polonia. Per la nostra e la loro libertà. Era del resto questo il progetto strategico di Sikorski. «Riteneva che con l’impegno militare la Polonia avrebbe potuto rifiorire come nazione libera, possibilmente riscattando i territori orientali occupati dall’Urss. Il generale aveva incalzato gli anglo-americani più volte sulla questione», mi rivelò Giuseppe Campana. La Guerra fredda vanificherà tale strategia.
In Iraq i soldati polacchi proseguirono l’addestramento e recuperarono progressivamente le forze dopo l’internamento nell’Urss. Poi, nell’agosto 1943, il trasferimento in Palestina, dove si registrò una defezione. Tremila ebrei polacchi arruolati nel corpo di Anders disertarono. Avrebbero costituito il nerbo delle milizie che cinque anni più tardi avrebbero sconfitto gli arabi e fondato lo Stato d’Israele. Una storia della storia.
Nell’ottobre 1943 l’ultimo spostamento, in Egitto, prima di salpare per l’Italia. Nella penisola, il Secondo corpo d’armata venne inquadrato nell’Ottava armata britannica. Dopo una fase di pattugliamento nella Val di Sangro, in Abruzzo, giunse l’ora della battaglia. Anders venne incaricato di sferrare l’attacco a Montecassino nella primavera del 1944. Tutte le precedenti offensive erano fallite, con grosse perdite. Il generale sapeva che l’impresa era ardua, ai limiti del possibile, ma non volle di certo tirarsi indietro. Lui e i suoi ragazzi erano carichi, determinati a fare la prima linea. «Volevamo prenderci una rivincita sui tedeschi e smascherare le menzogne dei russi, secondo i quali noi polacchi eravamo pavidi. Avevamo una grande determinazione», mi disse Narębski. Diedero tutto, e vinsero. Il 18 maggio 1944, sull’abbazia, sventolava il bicolore polacco. Intorno, solo macerie.
A giugno e luglio i polacchi furono impegnati nuovamente sul fronte adriatico, vincendo la battaglia di Ancona. Un’azione importantissima, questa. Sia perché Anders, svincolato dall’Ottava armata britannica, ebbe una certa autonomia strategica, sia perché il porto dorico diverrà fondamentale in termini di approvvigionamenti per gli Alleati. Dopo Ancona, ancora in marcia e ancora battaglie. A Senigallia, Pesaro e in Romagna, dove i polacchi – fatto denso di significato simbolico – liberarono Predappio. E anche qui si presero un’altra rivincita, dopo quella di Montecassino. «Nel 1939 Mussolini disse sprezzante che la Polonia era stata liquidata. Invece noi eravamo lì, a testimoniare che c’eravamo ancora», mi raccontò Narębski. Era il fascismo a non esserci più. L’ultimo sforzo fu la liberazione di Bologna, con i polacchi che furono i primi a entrare in città.
Finita la guerra, la storia non prese la piega che Anders e i suoi soldati avrebbero voluto. A Varsavia, finita nell’orbita di Mosca, fu installato un regime filo-sovietico. Moltissimi dei soldati di Anders, memori dell’invasione da est del 1939 e degli stenti nei gulag, e sospettosi del nuovo potere, a sua volta ostile nei loro confronti, scelsero di restare all’estero. La maggior parte di loro si stabilì nel Regno Unito; alcuni misero radici in Italia. Soltanto in 14mila tornarono in patria. Narębski era tra questi. Rientrò per ragioni familiari, mi spiegò. Sarebbe divenuto un rispettato geologo, insegnando all’università di Cracovia. Ha molti anni sulle spalle, ma è ancora di questo mondo. Quando se ne andrà resterà famoso come il “piccolo Wojtek” del Secondo corpo d’armata, data la sua bassa statura. L’orso era invece “il grande Wojtek”.
La vita dei reduci, nel Regno Unito o in Italia, assunse il sapore di un esilio amaro. Molti di loro non sarebbero più tornati in Polonia, né avrebbero fatto in tempo a vedere il crollo del comunismo. Anders morì nel 1970 a Londra. Il governo comunista di Varsavia gli tolse i gradi. Il generale volle farsi seppellire a Montecassino, insieme ai suoi soldati che persero la vita assaltando le fortificazioni dei nazisti. Quello di Montecassino è uno dei quattro cimiteri di guerra polacchi in Italia. Gli altri sono a Casamassima, in provincia di Bari; a Loreto, nei pressi di Ancona; e a Bologna. Quest’ultimo è il più grande, con 1432 tombe.
Chi tra i reduci rimase in Italia ebbe non pochi problemi politici. Il Partito comunista non li aveva in simpatia, e loro non avevano grande rispetto dei comunisti italiani. Inevitabile, vista la divisione del mondo in due campi. Qualcosa si è sciolto, nel corso degli anni. Caduto il Muro di Berlino, la storia del Secondo corpo d’armata è emersa nella sua pienezza, ed è stata finalmente raccontata senza reticenze.
C’è però un ingombro, ancora, quando da est si analizza la liberazione dell’ovest, e viceversa. Nel primo caso permane una reticenza nel dare legittimità al contributo del comunismo alla causa della liberazione e della democrazia nell’Europa occidentale. Nel secondo, si trascura il fatto che la liberazione dell’Europa centro-orientale da parte dell’Armata Rossa fu vista da molti come una nuova occupazione, dopo quella nazista. La storia del Secondo corpo d’armata polacco conferma l’esistenza di questo blocco psicologico e politico che, come un cuneo, scinde la memoria nella nostra Europa, ma offre anche una lezione per superarlo, per chi ha voglia di coglierla.