Polonia: donne e rivoluzione
di Centrum Report
Sono stati giorni di grandi proteste, in Polonia. Altri ne arriveranno, c’è da credere. Sono scoppiate dopo la sentenza con cui il Tribunale costituzionale polacco ha bocciato una parte della già restrittiva legge sull’aborto, rendendo quasi assoluto il divieto di interrompere anzitempo la gravidanza. La rivolta è stata lanciata dalle donne, e sono ancora loro a tenerne saldo il timone. Ma rapidamente si è allargata. Per la prima volta dopo tanti anni si registra anche una massiccia partecipazioni di giovani. “Passeggiate” di protesta, blocchi stradali, picchetti davanti alle chiese. Le iniziativa sono tante e varie. Mercoledì 28 c’è stato inoltre uno sciopero nazionale delle donne. Venerdì 30, una grossa manifestazione a Varsavia, con 100mila presenze.
Ormai le rivendicazioni di questo movimento, che scende in piazza nonostante la pandemia, per lanciare un chiaro messaggio di disobbedienza civile, guardano ben oltre i diritti delle donne. Si chiedono le dimissioni del governo di destra, espressione di Diritto e Giustizia (PiS), il partito di Jarosław Kaczyński. Si pretende una chiara separazione tra lo Stato e la potente Chiesa cattolica, promotrice di questa virata pro-life. Si alza la voce per allargare il campo dei diritti civili e sociali. E si domanda la fine dell’osmosi tra governo e giustizia, che ha caratterizzato questi anni di governo a guida PiS. Si protesta, malgrado la pandemia e i limiti imposti agli assembramenti. Per le donne, scendere in piazza, ora, con questo scenario, è un atto di necessaria disobbedienza civile.
Centrum Report esce in questo weekend del 31 ottobre-1 novembre con uno speciale sulla rivoluzione che sta prendendo forma in Polonia. Il primo pilastro è un lavoro audio, collettivo nella sua realizzazione, in cui diamo voce a due delle tante attiviste in piazza in questi giorni: Anna Osmólska-Mętrak e Aneta Wielgosz. Potete ascoltarlo dalla finestra Spreaker che vedete qui a fianco. A seguire, invece, potete leggere un lunghissimo racconto che fa luce su tutti i fattori e le variabili del movimento e dello scenario in cui ha preso forma. Una specie di FAQ raccontata, se vogliamo, anch’essa frutto di un lavoro collettivo. Si parte dall’oggetto della contesa: la legge sull’aborto del 1993. Buona lettura.
La disciplina sull’aborto
Nel 1932 la Polonia fu il primo Paese al mondo, dopo l’allora Unione Sovietica, a legalizzare l’aborto. All’epoca, l’interruzione di gravidanza era consentita se il parto avesse messo in pericolo la sopravvivenza della madre, nonché in caso di stupro o incesto. Nel 1956 venne varata una nuova legge in materia, molto permissiva, che si tradusse in 150-200mila interruzioni di gravidanza annuali effettuate legalmente nel Paese negli anni ‘80.
La nuova e attuale legge, tra le più restrittive in Europa, venne approvata nel 1993, a pochi anni dalla caduta del comunismo. Nacque da un controverso concordato fra Stato e Chiesa che scontentò sia laici che cattolici. Consente l’interruzione di gravidanza nei casi di stupro o incesto, quando la sopravvivenza della madre è messa a repentaglio dal parto e in presenza di malformazioni gravi del feto o sindromi fatali per la vita del nascituro.
Con l’avvento al potere del partito di destra Diritto e Giustizia (PiS), nel 2015, la legge vigente è stata messa subito in discussione. PiS ha seguito gli impulsi provenienti dalle associazioni pro-life e dalla conferenza episcopale polacca, che intendono porre ulteriori limiti sull’aborto.
Aborti illegali e all’estero: i numeri
Di fatto, negli ultimi anni, il numero di donne polacche costrette ad abortire clandestinamente in patria o a interrompere la gravidanza all’estero perché non tutelate dalla legge in vigore nel loro Paese è cresciuto vertiginosamente. Mancano dati ufficiali, ma secondo stime della Federacja na rzecz Kobiet i Planowania Rodziny (Federazione delle donne e della pianificazione familiare), un’organizzazione femminista, dal 2016 fra le 80mila e le 120mila polacche hanno abortito illegalmente in patria o, legalmente, all’estero ogni anno. Una delle destinazioni principali è la Slovacchia, seguita da Repubblica Ceca, Germania, Paesi Bassi e Lituania.
I dati sugli aborti legali, invece, mostrano come nel 2019 in Polonia se ne siano effettuati appena 1100, 1074 dei quali – il 97,6% – motivati da malformazioni o seri problemi di salute del feto evidenziati dallo screening prenatale. Proprio questo tipo di interruzioni di gravidanza verrebbe ora proibito dal pronunciamento del Tribunale Costituzionale.
Le proteste del 2016 e del 2018
Nel luglio del 2016, a meno di un anno dalla vittoria del PiS alle legislative (ottobre 2015), il comitato Stop aborcji (Stop all’aborto) presenta in parlamento una proposta di legge di iniziativa popolare che chiede il divieto totale di interruzione di gravidanza e sanzioni penali sia per i medici che la eseguono che per le donne che ne fanno richiesta. Il mese successivo, arriva all’attenzione del parlamento una seconda proposta, dal comitato Ratujmy kobiety (Salviamo le donne), che chiede invece il diritto all’aborto incondizionato entro la 12esima settimana di gravidanza, come da standard occidentali. Il 23 settembre il parlamento avalla l’inizio dei lavori per la proposta di Stop aborcji e rigetta quella di Ratujmy kobiety. Nei giorni successivi comincia la prima protesta sotto il nome di Czarny protest (Protesta nera). Il 3 ottobre si tiene uno sciopero generale delle donne che porta nelle piazze centinaia di migliaia di manifestanti e convince il parlamento, tre giorni dopo, a rigettare il disegno di legge. Ogólnopolski strajk kobiet, il nome usato dal movimento delle donne, viene coniato allora. E significa proprio sciopero generale delle donne.
Nel 2017 riprende la battaglia legislativa. Il 23 ottobre, Ratujmy kobiet presenta una nuova proposta con le istanze della precedente e alcuni nuovi punti, in particolare sul sostegno all’educazione sessuale nelle scuole. Il 30 ottobre, il comitato Zatrzymaj aborcję (Ferma l’aborto) ne depone un’altra per impedire l’interruzione di gravidanza per gravi malformazioni del feto. Il 10 gennaio del 2018, il parlamento rigetta nuovamente la proposta di Ratujmy kobiety e accoglie in commissione quella di Zatrzymaj aborcję. Il 19 marzo arriva il voto favorevole alla continuazione dei lavori parlamentari. Un segno di legittimità alla proposta che scatena una nuova convocazione dello sciopero delle donne: in piazza scendono 90mila persone.
Lo scorso aprile, in pieno lockdown, la proposta di Zatrzymaj aborcję torna all’attenzione del parlamento, rinnovato a fine 2019 e ancora una volta dominato dal PiS. Con la sola opposizione del gruppo di Lewica (Sinistra), arriva in commissione. In campagna elettorale per il suo secondo mandato, il presidente Duda dichiara che firmerebbe certamente la legge, se fosse approvata. Lo sciopero delle donne organizza delle proteste, tenendo conto del lockdown, invitando le attiviste a tappezzare di immagini e striscioni le finestre dei loro appartamenti.
Alla fine del 2019, un gruppo di 119 parlamentari, formato principalmente da deputati del PiS, ma anche dall’estrema destra di Konfederacja e dalla coalizione di centrodestra Psl-Kukiz ’15, aveva chiesto al Tribunale Costituzionale di esprimersi sulla compatibilità dell’aborto con la Costituzione, che tutela il diritto alla vita. La corte si è espressa il 22 ottobre 2020, ritenendo incostituzionale la parte della legge sull’aborto che prevede l’interruzione di gravidanza in caso di grave malformazione del feto o sindromi gravi che minacciano la vita del nascituro. Lo stesso giorno sono iniziate le proteste, ancora in corso.
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Il ruolo del Tribunale costituzionale…
Secondo i deputati che hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale, la legge sull’aborto del 1993 sarebbe risultata incostituzionale nella parte in cui concede la possibilità di interrompere la gravidanza in caso di malformazioni del feto. Assumendo che la vita inizi dal concepimento, ciò si scontrerebbe con il principio della Costituzione che tutela la vita di ogni essere umano (art.38).
La richiesta è rimasta in sospeso per diversi mesi, poi a metà settembre è stata calendarizzata la sentenza, per il 22 ottobre, appunto. La tempistica è sembrata sospetta, come se l’intenzione fosse quella di impedire proteste, date i limiti agli assembramenti previsti dalla pandemia. C’è da dire, però, che al momento della calendarizzazione la situazione pandemica, per quanto preoccupante, non era fuori controllo. L’impennata dei contagi e dei ricoveri è avvenuta infatti a inizio ottobre.
A oggi la sentenza non è stata ancora pubblicata sulla gazzetta ufficiale (spetta al presidente del consiglio dei ministri farlo), e pertanto non è ancora esecutiva. La sentenza non può essere revocata. Al massimo, la pubblicazione può essere rinviata. Intanto, il presidente della Repubblica Andrzej Duda intenderebbe presentare un disegno di legge che consenta l’aborto nei casi di malformazione fetale più gravi, ma non in quei casi in cui la vita del nascituro sarebbe garantita, come ad esempio nei bambini con la sindrome di Down. Un tentativo di compromesso che pare tuttavia destinato al fallimento. Un’alternativa è che il premier, Mateusz Morawiecki, scelga di non pubblicare la sentenza o che la invalidi, trovando un cavillo. Difficile. Si attende dunque, salvo prova contraria, la pubblicazione in gazzetta nei prossimi giorni. Nel frattempo, dai recenti sondaggi si registra un crollo del PiS, che arretra in media di almeno dieci punti, scendendo sotto il 30%.
…e i dubbi sulla sua legittimità
Uno degli aspetti più spinosi della vicenda riguarda la legittimità del Tribunale Costituzionale, composto da 15 giudici. È stato il primo organo a finire sotto il controllo del PiS nel quadro di un processo di “cattura della giustizia” iniziato subito dopo l’avvento al potere, nell’autunno 2015.
La vicenda affonda le radici nella primavera del 2015, quando la maggioranza parlamentare era ancora in mano alla Piattaforma civica, partito liberale. Sul finire della legislatura elesse cinque nuovi giudici del Tribunale, visto che il mandato di altrettanti togati sarebbe scaduto a stretto giro. In due casi non era così stretto, a dirla tutta: sarebbe terminato solo a dicembre, dopo le elezioni generali.
Per il partito di Kaczyński, i liberali avevano abusato del loro potere, procedendo a nomine inopportune, che sarebbero dovute spettare al vincitore della tornata elettorale, cioè al PiS. Il presidente Andrzej Duda, eletto nel maggio del 2015, si rifiutò di far giurare i giudici scelti dai liberali, mentre il nuovo parlamento, a trazione PiS, ne elesse altri cinque, che Duda fece subito insediare. La Commissione europea aprì una finestra su questa faccenda, mentre in piazza si faceva notare il Comitato per la difesa della democrazia (Kod), un movimento civico capace di organizzare varie manifestazioni, molto partecipate, contro l’assalto del PiS al Tribunale costituzionale.
Mentre i rapporti con Bruxelles si inasprivano sempre di più, fino ad arrivare all’attivazione di una procedura di infrazione aggravata per violazione dello stato di diritto, procedura ignorata dal governo di Varsavia, il PiS approvava a colpi di maggioranza una serie di leggi per modificare il regolamento del Tribunale costituzionale, in modo da variarne gli equilibri interni, a suo favore. Il mandato dei togati, per esempio, è passato da nove a tre anni con effetto retroattivo. Il PiS, così, è riuscito a nominare nuovi giudici, tutti ritenuti organici allo stesso PiS, inclusa Julia Przyłębska, l’attuale presidente, amica di lunga data di Jarosław Kaczyński. Il fatto che 13 giudici su 15 abbiano dato parere favorevole alla sentenza sull’aborto indicherebbe, ancora di più, la convergenza tra il Tribunale costituzionale e governo.
La crociata della chiesa
La chiesa polacca non è un’entità monolitica. Esistono varie correnti interne, ma oggi prevale nettamente quella più conservatrice, non propensa all’allineamento con il papato di Francesco. La Conferenza episcopale polacca ha spinto molto per la virata pro-life, e lo ha fatto anche con iniziative discutibili. Nel 2016, un documento dei vescovi fu letto, durante la messa domenicale, in tutte le chiese del Paese. Molte fedeli, scandalizzate, abbandonarono il culto. Un ruolo fondamentale, in questo processo, l’ha avuto Ordo Iuris, una fondazione cattolica che da anni conduce una battaglia serrata sui diritti riproduttivi e su quelli della comunità Lgbt+.
La questione dell’aborto appare una vittoria, per il campo cattolico, ma nasconde anche un’insidia notevole: l’accelerazione del distacco dei fedeli dalla chiesa, già in corso da anni. La secolarizzazione, in Polonia, ha passo rapido. Sono soprattutto i giovani a smarrire il sentimento religioso. Da una ricerca dell’Ufficio di statistica, di qualche mese fa, emerge che il 51% della fascia di popolazione compresa fra 25 e 34 anni si dichiara poco o per niente religiosa. Solo il 17% si sente religioso, fortemente o moderatamente. E intanto si svuotano i seminari, con conseguenze per tutto il mondo cattolico europeo. La Polonia, infatti, è la più importante fucina continentale di sacerdoti. Molti di loro, in tutto il continente, vanno a coprire parrocchie rimaste senza pastori.
La modernità che avanza, ma anche il coinvolgimento di molti uomini di chiesa in scandali di pedofilia, spesso coperti dalle gerarchie, sono tra i motivi per cui la comunità cattolica perde aderenti. La questione aborto potrebbe aggiungersi. Nei giorni delle proteste una delle parole più ricercate sul web polacco è stata apostazja, apostasia.
Cosa dicono le Ong?
Molte della associazioni e organizzazioni impegnate sul tema dei diritti umani hanno criticato la sentenza del Tribunale costituzionale. Per Amnesty International, il giudizio della corte «è il risultato di un attacco sistematico ai diritti delle donne». Presa di posizione dura anche per Human Rights Watch. «Invece di difendere i diritti, la corte contribuisce a violarli», si legge in una nota. Anche il Center for Reproductive Rights non ha fatto sconti. «Salute e vita delle donne sono a rischio», ha affermato Leah Hoctor, direttrice dell’ufficio europeo della Ong.
Non è mancata la critica del Consiglio d’Europa, organismo paneuropeo per la promozione della democrazia e dei diritti umani. «È un giorno triste per le donne», ha detto Dunja Mijatovic, commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, che, va ricordato, non è un organo dell’Ue. Quanto a quest’ultima, non sono emerse reazioni da parte della Commissione europea, ma proprio le Ong prima citate le chiedono di esprimersi sulla vicenda, che oltre al tema dei diritti tocca, profondamente, anche la questione della separazione dei poteri, sale della democrazia, per il fatto – già spiegato poc’anzi – che il Tribunale costituzionale, secondo Bruxelles, è composto da giudici nominati in modo controverso, se non illegittimo, dal governo.
C’è infine da segnalare che venerdì scorso, proprio mentre le donne polacche scendevano in piazza, un gruppo di circa 30 Paesi, molti caratterizzati da governi conservatori o scarsamente democratici, è il caso di Stati Uniti, Ungheria, Egitto e Brasile, ha firmato in una cerimonia virtuale la Geneva Consensus Declaration, una dichiarazione di intenti, non vincolante, che si propone di tutelare la famiglia. «Non esiste un diritto internazionale all’aborto», si legge a proposito dell’interruzione di gravidanza nel documento. Celebra un patto internazionale anti-abortista: così hanno scritto numerose testate.
Chi protesta? E come si protesta?
Le dimostrazioni sono partite già la sera del 22 ottobre. Si sono tenute a Varsavia, come in tante altre città del Paese, grandi e piccole. Sono coordinate dallo sciopero generale delle donne (Ogólnopolski strajk kobiet), ma la struttura del movimento è molto orizzontale, e il fronte è diventato molto largo. In tanti si sono uniti alle marce delle donne. Spicca la presenza di molti giovani, un elemento di rottura e novità: i giovani polacchi, negli ultimi anni, non avevano mai assunto l’iniziativa delle proteste. Il loro tono è stato da subito molto netto, diverso rispetto al passato. Non mancano le parolacce. Le donne in piazza non chiedono solo il diritto all’aborto, ma pretendono a gran voce la cacciata del governo e non intendono accettare compromessi di nessun tipo. Il movimento rivendica anche separazione tra governo e giustizia, come tra stato e chiesa, oltre all’allargamento dei diritti sociali e civili.
Le proteste si sono articolate in vari modi. Ci sono le “passeggiate”, il nome in codice dato alle manifestazioni. Si sono organizzati blocchi stradali, lunedì 26 ottobre. Mercoledì 28 è stato invece indetto uno sciopero nazionale delle donne: molte non si sono presentate sul posto di lavoro. La partecipazione è stata continua, con decine di migliaia di persone nelle singole piazze del Paese, nonostante la pandemia. Va detto che quasi tutti i partecipanti si sono presentati muniti di mascherina e hanno sempre mantenuto, quando possibile, il distanziamento sociale. Manifestare durante la pandemia è comunque un gesto di rabbia, di disobbedienza civile, come ci hanno spiegato le attiviste sentite nel nostro podcast.
Il momento più discusso della settimana di proteste è arrivato domenica 25 ottobre quando le attiviste hanno occupato alcune chiese durante le messe, esponendo i loro striscioni e manifesti. È soprattutto in seguito a questo gesto che Jarosław Kaczyński ha chiamato i sostenitori di PiS a difendere le chiese e i valori tradizionali. A questo appello hanno risposto i gruppi dell’estrema destra, che hanno organizzato una Guardia Nazionale per assistere la polizia nella difesa degli edifici di culto. La sera di mercoledì 28 ottobre gruppi di nazionalisti hanno attaccato le manifestanti nelle città di Wrocław e Białystok.
Gruppi di attivisti di estrema destra sono arrivati a Varsavia anche il 30 ottobre, mentre in città si radunavano più di 100mila manifestanti da ogni parte della Polonia per l’evento chiave delle proteste di questa settimana. In varie occasioni, piccoli gruppi di provocatori hanno tentato di disturbare il corteo con lanci di razzi e di pietre. Ci sono stati dei feriti, ma nessuno grave.
Il corteo di protesta si è prima radunato in centro, ai piedi del Palazzo della Cultura, per l’occasione illuminato dall’amministrazione comunale (guidata dall’ex candidato presidente dell’opposizione, Rafał Trzaskowski) con la saetta simbolo delle proteste. Dopo un paio d’ore, la folla si è spostata in direzione nord, verso il quartiere di Żoliborz dove si trova la villa di Jarosław Kaczyński, protetta da un cordone di camionette della polizia e agenti in tenuta antisommossa. Dopo essere arrivato sotto l’abitazione di Kaczyński, il corteo si è sciolto. Nessuna volontà di sfondare il cordone di sicurezza. E nessuna azione davanti alle chiese, presidiate da polizia, esercito e sedicente Guardia nazionale. Nonostante questo, la stampa di destra e la tv pubblica hanno titolato parlando di devastazioni e di una capitale assediata dal “fascismo di sinistra”. Voci di corridoio dal ministero della Giustizia affermano che le procure stanno preparando mandati di arresto per le organizzatrici dello sciopero delle donne, accusate di avere organizzato eventi che avrebbero messo a rischio la salute pubblica. Si parla anche dell’imminente proclamazione dello stato d’emergenza, per via della curva verticale del Covid-19. Per la settimana prossima, a partire da lunedì, sono previste altre forme di protesta a coordinamento locale. La protesta delle donne non si ferma.